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La motivazione di base? Migliorarsi!

Creato Lunedì, 24 Maggio 2010 23:00 Data pubblicazione Visite: 3974

Categoria principale: Focus ON - Categoria: FOCUS_2010

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La motivazione a migliorarsi, dal nostro punto di vista è allla base di qualunque idea di formazione, cambiamento, sviluppo. Perciò abbiamo trovato assoluamente consivisibile questo brano tratto da: "Vincere sbagliando - Elogio dell'imperfezione manageriale" di Riccardo e Maria Ludovica Varvelli - Ed. Il Sole 24 ore. Milano 1999.


Migliorarsi

"Evita di formarti se non ti diverti ad imparare."

Ci sono organizzazioni che dicono di erogare "formazione manageriale" e nella sostanza producono "addestramento professionale". Ci sono docenti che affermano di fare "formazione per manager" e nel migliore dei casi preparano "esperti di tecniche gestionali". Ci sono scuole che dicono di insegnare "management" e nei fatti diffondono "conoscenze di metodi operativi".

C'è molta confusione nel lessico, nella terminologia e nella pratica delle attività educative delle aziende italiane. Si paga per "formazione" quello che è "istruzione". Si dà la colpa di ciò ai docenti, ma sono le alte direzioni che li scelgono e così in aula vanno frequentemente professori universitari (o i loro assistenti-ricercatori), maestri del nozionismo, sufficientemente esperti del metodo ma non sempre adatti a incidere sulle convinzioni degli allievi.

Su questa materia (la formazione manageriale) le alte direzioni non si dimostrano, sovente, all'altezza del loro mandato. Esse riconoscono che i propri collaboratori-di- pendenti sono la risorsa strategica e prioritaria per raggiungere o mantenere il successo dell'organizzazione, ma non sanno che cosa chiedere a chi deve supportare in aula questa convinzione. Esse riconoscono che, di fronte a obiettivi ambiziosi o comunque coraggiosi, il più grave scoglio da superare è quello di far cambiare l'atteggiamento e il comportamento dei propri collaboratori, ma si affidano a semplici anche se qualificati "erogatori di sapere". In virtù di un non dovuto atto democratico spesso le alte direzioni dèlegano la progettazione di programmi formativi manageriali alle risultanze di una "analisi dei bisogni" espressa dalla base, accettando in maniera acritica un elenco di attese quasi sempre somiglianti a un cahier des doléances. È noto, infatti, che in un 'analisi delle attese formative, raramente il soggetto intervistato afferma: "Voglio delegare di più", ma facilmente dichiara: "Sento il bisogno di sentir parlare di delega perché io ne ho poca ".

Con questa accondiscendenza al volere della base le alte direzioni rinunciano a realizzare il cambiamento richiesto. Una rinuncia che è implicita anche nei comportamenti. Ci sono alte direzioni che non vanno mai in aula di formazione. Non partecipano come allievi interessati alla prima edizione del corso per avere coscienza di ciò che esso offre e non inaugurano i successivi corsi per annunciare ciò che esse vogliono e si attendono dai collaboratori. Molto raramente chiudono i corsi verificando quanto il docente abbia erogato, quanto i discenti abbiano appreso, ma soprattutto quanto ognuno dei partecipanti decida di trasferire immediatamente nell'operatività quotidiana e che cosa venga chiesto alla stessa alta direzione per realizzare il predicato.

C'è una sorta di tacita connivenza tra queste direzioni e gli "erogatori di sapere": "lo non ti controllo sulla tua esibizione in aula e tu non farmi sapere che cosa succede in aula". Fuori di questa aula c'è il cartello: "Do not disturb".

Se questa è l'interpretazione del concetto di "formazione manageriale" allora non chiamiamola più così. Proviamo a chiamarla invece "sviluppo". In fondo "formare" vuol dire "definire", "dare forma", e la forma rischia di essere permanente. "Sviluppo" è crescita, invece. È cambiamento attivo. È miglioramento continuo e come tale richiede di misurare costantemente il punto in cui si è e di indicare periodicamente l'obiettivo verso il quale l'alta direzione ha deciso di muoversi.


Se esiste un'attività sociale per definizione imperfetta, questa è la cosiddetta "formazione", cioè il tentativo di trasferire da una persona a un'altra idee, informazioni e comportamenti. Per quanto studiato e conosciuto nelle sue reazioni, l'essere umano rimane libero, misterioso e incontrollabile nelle decisioni finali. Il cane di Pavlov aveva riflessi condizionati perfetti e prescritti, ma nemmeno dopo i più avanzati interventi sul cervello l'uomo riesce a essere "formato" in modo perfetto come un cane.

La parola stessa, formazione, ha dunque in sé qualcosa di patetico e illusorio e va accettata soltanto come codice indicativo. A seconda dei contenuti trasmessi e degli obiettivi a cui mira, essa assume caratteristiche diverse: da quella scolastica e di base a quella addestrativa fino a quella manageriale. È di quest'ultima che quindi vuole parlare, muovendo dalla citazione di Charles Handy: «A fine millennio non siamo arrivati dove pensavamo. L'ultimo decennio ci ha lasciato in eredità organizzazioni e lavoro in preda alle contraddizioni. Il futuro dipende dalla nostra abilità di ricomporre in quadro dati e segnali confusi, per dominare il caos e trovare un varco attraverso i paradossi».

La formazione è e resterà indispensabile in qualsiasi società e organizzazione, perché cultura, competenza, tradizioni e conoscenze devono venire trasferite da una persona all'altra. Ma è il modo di trasferire che va aggiornato e cioè scrostato dalle ruggini che lo hanno man mano irrigidito, rendendolo ogni giorno più obsoleto proprio mentre le persone diventano ogni giorno più vive, attente e vitali.

L'apprendimento adulto segue nel tempo le stesse fasi: si attiva per interesse o per bisogno; si accende con l'attenzione; si realizza con la volontà e si fissa con la riorganizzazione delle conoscenze precedenti. Dopodiché può trasferirsi in azione, oppure rimanere modello mentale. Ciò che la formazione manageriale ha dimenticato è la prima fase: quella di attivare l'interesse o il bisogno del soggetto.

Bisogna ripartire dalla persona, coinvolgerla, accenderla con collegamenti e stimoli che essa percepisce come personali e diretti al proprio sviluppo e potenziamento umano. Per certi argomenti non è facile; appaiono teorici, speculativi, distanti dall'interesse e dalle motivazioni individuali. Ma c'è un mezzo per agganciare l'apprendimento: l'esempio e la testimonianza. Il docente deve testimoniare la sua convinzione, il suo gusto per ciò che dice, il piacere e il benessere che gli procura il suo insegnamento.

Fino ad oggi il docente dimostrava la sua competenza: ora è urgente che dimostri la sua intelligenza (che è un'altra cosa). Il formatore deve essere esempio di vitalità e di successo e accogliere nelle aule i partecipanti come se li stesse onorando di un'occasione arricchente e appassionante.

Fino ad oggi i formatori rappresentavano una categoria pallida e assorta, impastata dalla malinconia di sentirsi incompresa, quasi scusandosi di fare attività di secondo livello. Dovrebbero invece apparire vitali, con un eccellente marketing di se stessi e un altrettanto piacevole marketing del prodotto.

Nel Duemila sopravviverà solo la formazione positiva, coinvolgente, entusiasmante. Per il resto basterà lo schermo di un computer da consultare su necessità. Ma guai all'organizzazione che avrà dimenticato che l'apprendimento è prima di tutto interesse personale!