Stress lavoro correlato

Stress lavoro correlato e benessere organizzativo

"I medici pensano che stanno facendo qualcosa per voi classificando come malattia quello di cui soffrite" (I. Kant)

 

"Per lo sguardo medico la malattia ha solo un decorso, un esito, mai un senso" (U. Galimberti')

Forse si può partire da queste due citazioni per proporre alcune riflessioni sugli orientamenti con cui si affrontano quelle che alcuni definiscono patologie organizzative e per le quali propongono diverse e numerose ricette di cura e guarigione. Emergono, infatti, in queste vicende delle opzioni che possiamo sicuramente definire "politiche", collegandoci, con questa espressione a quanto sostenuto ad esempio nell'articolo di A. Orsenigo presente in questo stesso numero. Si tratta di opzioni politiche, che sembrano tentare manager e imprenditori, persone che a vari livelli operano all'interno di organizzazioni di vario tipo e anche consulenti, ricercatori e formatori. Opzioni non esplicitate e spesso sottovalutate, ma che ci sembra abbiano una rilevanza e degli impatti trasformativi consistenti sulla vita delle organizzazioni e sulle rappresentazioni che i singoli che vi lavorano si creano, ad esempio, in tema di valori, priorità, modalità di stare in relazione con gli altri, con i problemi, e che gli stessi utilizzano anche per rappresentarsi quanto avviene nel contesto sociale, e quindi politico, più ampio. Peraltro molti dei problemi che vivono le organizzazioni, e di cui parleremo in questo articolo, ci sembrano gli stessi che, ad altro livello, attraversano la nostra società e che quindi interessano ed impegnano chi si occupa di politica intesa, come da definizione classica del dizionario, come scienza ed arte di governare lo stato. Allora ci sembra che molto spesso il lettore potrebbe sostituire la parola organizzazione con la parola società e pensare che quelli cui ci riferiamo parlando di manager, capi, autorità organizzative possono essere pensati come i politici che scegliamo andando a votare.

 

Nelle organizzazioni, a fronte di insuccessi e risultati negativi, di conflitti e insoddisfazioni, di blocchi, tensioni e confusioni, di situazioni sempre più diffusamente definite stressanti, sembra che sia possibile, anzi necessario, doveroso, in quanto logico e efficace, definire, individuare cause e caratteristiche di determinate patologie per arrivare alla loro eliminazione (il più possibile rapida ed indolore). Ovvero, nonostante siano stati scritti fiumi d'inchiostro, si siano fatti centinaia di convegni e seminari, lezioni e conferenze sul tema delle organizzazioni come realtà sociali irriducibili, si continuano a vedere i fenomeni che scandiscono la loro vita come malattie, alterazioni di un presunto stato di salute, mali da estirpare, ostacoli da superare, e quindi segni di debolezza, di cedimento. L’organizzazione sembra debba essere considerata come un organismo armonicamente funzionante, che deve essere liberato dal male prima ancora che si sia capito in che cosa effettivamente consista la sua salute". Peraltro quello di cui si parla più spesso sono le cosiddette patologie organizzative che impattano sui risultati di efficacia e di efficienza mentre è quasi un tabù organizzativo svelare i collegamenti tra le patologie che riguardano i singoli (che si ammalano di organizzazione e per l'organizzazione in forme più o meno dirette ed evidenti e più o meno gravi) ed il contesto in cui lavorano, pur essendo il luogo di lavoro quello in cui le persone trascorrono la maggior parte del loro tempo.

 

AI manager o al consulente, al nuovo direttore o anche al formatore frettolosamente ingaggiato viene allora spesso affidato un mandato assai simile a quello che si potrebbe dare ad un medico, in cui affidamenti impliciti e carichi di ambivalenze si impacchettano in linguaggi sovrapposti, incrociati, contaminati con un rassicurante gergo sanitario, con seduttivi riferimenti a ricette miracolose da sintetizzare in slogan accattivanti (ad , esempio corsi manageriali su "benessere organizzativo e check up di clima", su "come vincere lo stress", su "come dare energia al team di lavoro"). Se pensiamo alla politica pubblica l'equivalente parte dagli slogan elettorali e prosegue nei programmi elettorali e poi nelle leggi ad effetto che spesso sembrano più pensate per i titoli di giornale che per risolvere problemi effettivi.

 

Probabilmente alcune definizioni che sono proprie della cultura medica tradizionale occidentale, vengono utilizzate anche dalla cultura manageriale di stampo aziendalista, per parlare dei disagi che si vivono all'interno delle organizzazioni, perché entrambe le culture condividono degli assunti di impronta cartesiana che portano a rappresentazioni molto simili rispetto ai concetti di benessere e malessere ed al loro relativo trattamento.

 

D'altra parte ci sembra di rilevare, in ambedue gli ambiti culturali, alcuni movimenti, forse ancora minoritari ed a volte guardati con diffidenza, che si rapportano alla "malattia" in un'ottica più dinamica, come fonte di conoscenza, come messaggio significativo, che la realtà corporea, mentale e sociale offre per illuminare, considerare, capire, sentire qualcosa che forse sta sfuggendo o che non si vuole, più o meno consapevolmente vedere, incontrare, assumere.

 

In medicina sta aumentando sempre più la consapevolezza del ruolo dei fattori psicologico - relazionali nella malattia, così come interessanti ed utili appaiono gli sviluppi ed i collegamenti con le neuroscienze e la diffusione di orientamenti olistico - sistemici, generando quello che viene definito un modello bio - psicosociale" che si caratterizza per il progressivo riconoscimento dell'importanza di valorizzare la complessità ed il ruolo delle interdipendenze che investono livelli diversi, primo tra tutti quello che riguarda l'interazione persona-ambiente.

 

Riferimenti ad alcune delle tendenze evolutive che si evidenziano anche nel!' ambito della cultura medica occidentale, sollecitano e inducono a mettere ulteriormente in luce delle ipotesi, forse più specifiche e appropriate, per trattare alcune questioni critiche che attraversano le organizzazioni di oggi nel tentativo di ricostruire un senso, più vitale e meno patologico, di alcuni nodi critici ("la malattia è fredda ed io ho imparato a ricreare il calore sottratto").

 

Il persistere e l'insistere nel credere e nel far credere che sia possibile diagnosticare i mali delle organizzazioni e curarli, probabilmente può essere letto come un atteggiamento politico carico di ambivalenza: da un lato si prendono posizioni e iniziative rivolte a migliorare il funzionamento complessivo; si manifesta un concreto interesse per modificare positivamente le condizioni di lavoro, anche in vista di rispondere ad attese dei singoli; dall' altro lato, si assume che il bene dell' organizzazione e di chi in essa lavora, possa essere individuato e messo in atto da chi nell'organizzazione ha un ruolo apicale (rifacendosi ad un approccio paternalistico) o da chi ha un ruolo tecnico-specialistico (approccio tecnocratico) che lo autorizza a decidere sui problemi e sulle persone, a volte anche sovrapponendo alla realtà complessa e multiforme dei modelli astrattamente ordinati o imponendo una propria visione unilaterale e semplificante. In politica queste semplificazioni appaiono molto diffuse e rimandano ad un orientamento fortemente di-simmetrico in cui spesso chi ha la responsabilità politica ritiene di assumere il compito di fornire visioni positive, ricette di successo che possano assurgere al ruolo di storie vincenti in grado di motivare e di creare consenso".

 

La scelta di andare in questa direzione non è neutra, sia essa fatta in "buona" fede, con intenzioni e motivazioni orientate a migliorare, sia essa piuttosto rivolta a far prevalere univocamente strategie e propositi di qualche individuo o di qualche gruppo a cui gli altri o l'organizzazione nel suo insieme inevitabilmente deve sottostare. Non è neutra perché è impregnata di diverse concezioni dei rapporti (tra differenti attività, posizioni, visioni, interessi che costituiscono la realtà organizzativa) che possono assumere differenti configurazioni tra due polarità, tra il considerarle come pluralità da riconoscere e connettere o trattarle come multiformità rischiose da controllare riducendole entro interazioni gerarchiche duali.

 

Nelle riflessioni che seguono tentiamo di segnalare alcune questioni critiche che attraversano le organizzazioni e gli individui che ne fanno parte, non rappresentandole come patologie, ma cercando piuttosto di contestualizzare quanto si rileva quotidianamente nei micro-contesti lavorativi, rispetto ad alcune tendenze che si registrano ad un livello più generale e complessivo e di proporre ipotesi per gestire alcune situazioni di malessere organizzativo con minor frustrazioni e disagi e, persino, con qualche soddisfazione possibile; optando cioè per una valorizzazione dei contenuti conoscitivi e degli apporti anche discordanti e impertinenti di chi comunque in queste situazioni lavora.

 


Organizzazione e Complessità

 

Una prima questione spesso sottolineata e richiamata è costituita dall'immersione nella complessità. Le imprese grandi e piccole, pubbliche e private, società di capitali e di persone, aziende industriali, commerciali, sanitarie, aziende speciali di servizi esigono strutture e funzionamenti organizzativi che reggano lo complessità di un contesto esterno, ormai comunque globale, che condiziona ogni mercato ed è sempre più imprevedibile nelle sue evoluzioni tecnologiche, nelle multiculturalità, nelle vicende e negli intrecci finanziari e politici. Da più parti vengono rappresentati e spiegati fenomeni che mettono in luce le molteplicità di variabili in campo, incontrollabili per molti aspetti e irrompenti in modo accelerato, spesso non immediatamente evidenti: se ne segnalano (a volte anche con drammatizzazioni) le componenti temibili e minacciose, ma contemporaneamente vengono rilevati e rimarcati gli ampliamenti di possibilità e di strumentazioni, di invenzioni e soluzioni. Più rare sono le descrizioni della complessità che si incontra entro i confini delle organizzazioni, come se in qualche modo si desse per scontato che lo realtà interna sia meno impegnativa e comunque trovi o debba trovare degli adattamenti, come se fosse tutto sommato indiscussa la convinzione che chi lavora all'interno è strutturalmente "dipendente", subordinato e protetto. Oppure la complessità interna viene spesso citata con una sorta di fierezza, come a dire "complesso è bel/o", o come alibi, causa non governa bile di problemi, indecisioni, difficoltà "Dottoressa, che ci vuoi fare, qui siamo troppo complessi" è una delle frasi tipiche che si incontrano ai primi passi di una nuova conoscenza organizzativa.  Ai fini di questo articolo ci sembra in particolare interessante fermare l'attenzione e lo riflessione su come viene vista e affrontata lo complessità da chi dirige e gestisce le organizzazioni e/o da chi in esse si propone di intervenire.

 

Che cosa si intende per complessità? Secondo lo definizione proposta da Morin in uno dei suoi primi testi sul tema la complessità è inscritta geneticamente nella sfera fisica e biologica e nella sfera antropologica e sociale. "La genesi è complessa. La particella è iper-complessa (non è l'elemento più semplice). L'organizzazione è complessa. L'evoluzione è complessa. La physis non è semplificabile e la sua complessità sfida in pieno la nostra capacità di intendere, nelle sue origini, la sua struttura infra-atomica, il suo sviluppo e il suo divenire cosmico". "La complessità emerge come oscuramento, disordine, incertezza, antinomia" e da questo prende avvio - si "feconda" - un nuovo tipo di comprensione e spiegazione, che è appunto il "pensiero complesso", in cui si connettono concetti assunti e presi finora in modo disgiunto. Il nucleo centrale della complessità non è tuttavia soltanto compresenza di molteplicità separate e isolate tra loro ma associa mento, collegamento di ciò che è considerato come antagonista; corrisponde all'irruzione di antagonismi entro assetti organizzati, all'aprirsi di paradossi e contraddizioni. E accostare lo complessità implica pensare insieme senza incoerenza idee che sono tra loro contrarie, ricercando un "meta" punto di vista che relativizzi le contraddizioni, inscrivendole entro un circolo che renda produttive posizioni e concetti contrastanti, facendole diventare complementari. Ora questo appare particolarmente oneroso soprattutto per coloro che per auto od etero - attribuzione si assumono responsabilità di far funzionare entro parametri ben stabiliti e preordinati, entro previsioni di budget razionalmente calcolate, entro piani e programmi logicamente definiti, l'organizzazione complessiva, i processi di produzione, lo redditività economica e finanziaria, i comportamenti dei singoli e dei gruppi.

 

E se per quanto riguarda l'ambiente esterno viene acquisito come inevitabile misurarsi con imprevedibilità, squilibri, turbolenze di ogni tipo e non riuscire a conoscere, e tanto più controllare, andamenti e tendenze del mercato e degli sviluppi tecnologici, per l'interno delle organizzazioni è difficilmente accettabile che ci si debba continuamente confrontare con una complessità irriducibile, alimentata dall'inesauribile varietà di motivazioni, interessi, progetti, attese, emozioni, alleanze e inimicizie, identificazioni e contro-identificazioni che i singoli intrecciano nelle situazioni lavorative e che animano l'organizzazione in quanto sistema sociale. Si rischia di vedere tutto questo come disordine da rimuovere o espellere, disfunzione patologica da curare per guarire, da eliminare una volta per sempre.

 

Analoga insofferenza viene espressa rispetto all'ampliarsi delle opportunità, nei confronti di una complessità data, quindi, dalla sommatoria di possibilità, più o meno attivabili, legittime e legittimate, in concorrenza tra loro.

 

E se tutto questo dinamismo sembra generare, soprattutto nei manager e negli alti dirigenti, l'imperativo di doverlo cogliere e valorizzare, di fatto, a fronte delle varie opzioni e potenzialità, le organizzazioni sembrano sperimentare sempre più spesso difficoltà, debolezze, reazioni incerte o troppo precipitose, viste tutte come limiti patologici da affrontare con adeguati rimedi, e forse non è un caso se di questi tempi si vedono moltiplicarsi varie pratiche di coaching e di counseling.

 


Come si affronta la complessità

 

Quali sono, dunque, i modi con cui si cerca di trattare lo complessità all'interno delle organizzazioni? Ci sembra che siano diverse le soluzioni applicate, a volte in forme più o meno consapevolmente integrate o sovrapposte o alternate, tutte forse accomunate dal fatto di cercare di aggirare, evitare, allontanare l'incontro con lo densità e l'intensità dei contesti compiessi.  Ai fini della nostra analisi ci sembra utile trattare due principali tipologie di risposta accomunate dal fatto di assumere una logica speculare nei confronti della complessità (trattata quindi con modalità di "a domanda/problema rispondo") e distinte in funzione dell' oggetto principale di lavoro che assumono. Da una parte c'è lo risposta centrata sul ridisegno organizzativo delle strutture e finalizzata alla ottimizzazione della performance organizzativa in chiave di efficacia e di efficienza, dall'altra c'è lo risposta orientata alle persone che si propone di mettere al centro le "risorse umane" di cui ci si occupa cercando di prescriverne il benessere o di riconoscerne colpe, mancanze cui imputare i disagi e le disfunzioni organizzative.

 

Reagire alla complessità attraverso interventi di riorganizzazione, più o meno consistenti, è una via sempre più diffusa e progetti di questo tipo sono all'ordine del giorno praticamente in tutti i settori e in tutti i tipi di organizzazioni. L’intento è di contenere lo complessità essenzialmente ridefinendo ruoli, mandati, procedure e processi in un'ottica di proliferazione o di riduzione degli stessi, guardando alla complessità come male necessario da trattare con soluzioni che paradossalmente trovano a volte, proprio nella loro incomprensibilità, il segno del loro apparente valore. D'altro canto tutti i progetti di riorganizzazione vengono "venduti" all'interno delle strutture come progetti di miglioramento organizzativo sostenuti da logiche di razionalità tecnica e strumentale sebbene spesso lo sensazione delle persone che vi sono coinvolte è che si tratti di cambiamenti, e non di miglioramenti, avvertiti come non voluti, immotivati o incomprensibili, ingovernati o ingovernabili.

 

Si lavora, quasi incessantemente, al ridisegno dei ruoli di singoli, di gruppi/aree/uffici/dipartimenti, fino ad arrivare al riassetto strutturale dell'intero modello organizzativo, sostenuto anche da investimenti complementari di natura tecnologica. Quello che sembra importante è progettare bene definizioni strutturali, collocazioni e contenuti dei ruoli, eliminandone alcuni ed introducendone altri, "nuovi". A volte i ridisegni sembrano far proliferare ruoli che paradossalmente hanno nomi sempre più lunghi, ma attività sempre più difficili da descrivere, da spiegare, con il risultato che sempre più spesso c'è differenza tra quello che viene scritto nei documenti ufficiali e quello che viene compreso, riferito, agito, sentito dalle persone che occupano quelle stesse posizioni.

 

Per molte aziende industriali, ad esempio, lo crescita organizzativa (o forse lo complicazione organizzativa) ha implicato il passare, spesso molto rapidamente, da ruoli funzionali, a ruoli divisionali, a ruoli matriciali, a ruoli di processo, a ruoli di staff aventi denominazioni sempre più complesse, con un conseguente intreccio di riferimenti di autorità, per cui una singola persona si trova ad avere due, anche tre persone come capi cui riferire, su livelli nazionali ed internazionali, a volte per questioni differenti, a volte per questioni che si sovrappongono e si contrastano.

 

Una storica azienda imprenditoriale del Nord Italia ha pensato di affrontare lo sfida dell'espansione sui mercati esteri introducendo, nel giro di due anni, tutti gli strumenti manageriali più avanzati, dal BPR alla Balance Scorecard", modificando completamente lo propria struttura funzionale, aumentando e duplicando livelli dirigenziali, salvo accorgersi, subito dopo, che l'imprenditore per primo non riusciva a comprendere ed a gestire tutti questi strumenti e che era necessario tornare a forme più semplificate di organizzazione. In un Comune di un'importante città del NordEst nel giro di quattro anni si sono avute quattro riorganizzazioni con diversi accorpamenti e suddivisioni dei servizi, con diverse configurazioni e attribuzioni di ruoli: e in ogni caso non si è riusciti ad esporre ragioni sufficientemente fondate sul perché, ad esempio, i servizi dell'area minori e famiglie (chiamati a intervenire con competenze elevate, su questioni sofisticate, riguardanti adozioni, affidi, allontanamenti per decisione del tribunale, decadimenti di patria potestà, ecc.) affidati a un'équipe centrale, siano stati smembrati ¬ suddividendo gli operatori per collocarli in ordine sparso alle dipendenze delle circoscrizioni. In Emilia cinque aziende sanitarie locali sono state fuse in un'unica azienda che ora ha 8500 dipendenti ed è costituita da territori tra loro molto diversi, da un'area urbana intensamente popolata ad una zona montana con piccoli comuni, semi abbandonati; come altre fusioni del genere ha implicato accentramenti gestionali che avrebbero dovuto offrire maggiori possibilità di risparmio e di riduzione delle spese, ma al tempo stesso si è allungata lo scala gerarchica e si sono rallentati i processi di comunicazione e decisione.

 

Quello che poi accade di frequente è l'alternarsi di fasi in cui si introducono e moltiplicano le "novità" - nuove articolazioni, nuovi uffici, servizi, ruoli - con altre fasi, seguenti (spesso tipicamente coincidenti con momenti di crisi), in cui si cerca invece di ridurre e semplificare, eliminando posizioni, attività, livelli.

 

Le riunioni, i comitati di coordinamento, i gruppi di monitoraggio, che fanno anch'essi sempre più frequentemente parte dei ridisegni organizzativi, assolvono, per lo più, in questi contesti, una mero funzione di informazione didascalica che però non aiuta i singoli ed i gruppi a tracciare, a ricomporre ed a costruire legami di senso tra le diverse attività, tra diversi progetti e mandati spesso non univoci, tra patrimonio di competenze preesistenti e nuovi orientamenti e ambiti di attività. Così si assiste alla proliferazione di ruoli di intermediazione, di collegamento che dovrebbero ricomporre ciò che è stato scomposto, ma nella realtà, vengono spesso interpretati o visti come depositari di funzioni di controllo più che di facilitazione di dialoghi e comprensioni.

 

Tutti questi interventi di riorganizzazione sembrano muoversi nella logica di affrontare lo complessità dell'insieme dell' organizzazione, frantumandola in parti (settori, sezioni) che, in quanto di dimensioni ridotte e circoscritte, possono essere maggiormente isolabili, gestibili, controllabili. Il risultato è di introdurre specializzazioni, separazioni, scissioni. Gli oggetti di lavoro perdono lo rappresentazione tradizionale, comunque relativamente compiuta e integrata, per essere scomposti in pezzi che ognuno, gelosamente ed esclusivamente, tende ad alimentare arrivando spesso al punto di non porsi più lo domanda sul "se", sul "come" e "dove" il proprio lavoro vada a confluire.

 

La gestione di ogni singolo pezzo richiama ed esige l'attività di esperti e specialisti posti in una precisa gerarchia di saperi cui spesso ci si rivolge, anche con aspettative quasi magiche e taumaturgiche. L'accreditamento dei professionisti, interni ed esterni all'organizzazione, passa dal loro livello di specializzazione e a questi vengono affidate deleghe, mandati, progetti ben focalizzati il cui buon esito sembra essere proprio misurato dal fatto di raggiungere un obiettivo a prescindere dal contesto complessivo, senza individuare, considerare, valutare, per riprendere il linguaggio medico, le interdipendenze e gli effetti collaterali".

 

Si potrebbe dire "l'operazione al cuore è perfettamente riuscita, ma il paziente è morto".

 

Accanto agli investimenti rivolti ad affrontare lo complessità con cambiamenti "micro-strutturali" si propongono delle ristrutturazioni totali, organiche dell'intero sistema organizzativo, contemporaneamente o a seguito di esiti insoddisfacenti o sotto lo pressione di esigenze e condizioni esterne non gestibili diversamente. Fusioni, accorpamenti e scorpori di rami di azienda, accentramenti e decentramenti sono tutte soluzioni organizzative pensate come risposta alla complessità crescente che rappresentano veri e propri cicloni all'interno delle organizzazioni e dei cicloni sembrano avere, oltre che lo forza, anche lo velocità di azione e lo imprevedibilità di traiettoria. Tutti elementi che generano rapidamente all'interno un senso profondo di incertezza, di precarietà, di confusione, di smarrimento. In tutti i casi si tratta di soluzioni che mettono al centro lo struttura organizzativa nella sua componente "hard" mentre le persone rimangono come variabile "dipendente", subordinata. Quanto ci si interroga sulla valenza politica più complessiva di questa opzione? Sugli impatti diretti ed indiretti che questa rappresentazione delle relazioni ha nel contesto sociale più ampio?

 

Una seconda modalità di risposta alla complessità concentra l'attenzione sulle persone e si traduce in attività quali indagini sul clima organizzativo, ricerche sul benessere, ricerche partecipate o ricerche intervento per predisporre nuove produzioni, nuovi servizi, ecc. Si realizzano focus group, questionari e interviste per considerare le opinioni, i vissuti, le aspettative delle persone, partendo però, nella maggior parte dei casi, da schemi preordinati che inevitabilmente selezionano la raccolta di segnali intrinsecamente deboli e che consentono, a volte, di aggirare più o meno consapevolmente i veri nodi critici.

 

L'obiettivo dichiarato è il benessere organizzativo, che si presume raggiungibile seguendo una logica che potremmo definire di tipo prescrittivo e binario poiché opera alimentando scissioni tra giusto e sbagliato, buoni e cattivi, colpevoli e salvatori, vittime e carnefici.

 

È una risposta che assume la complessità come sinonimo di confusione, quasi di vera e propria patologia, che elude accuratamente una visione multicausale e tende piuttosto a sollecitare la messa in evidenza di fattori esterni, a cui si deve sottostare perché incontrollabili e indiscutibili oppure modifica bili per volontà (buona), con mutamenti di strategie aziendali e di atteggiamento da parte dei vertici aziendali e in genere dei ruoli gestionali. Soprattutto allestendo in modo un po' generico e scarsamente contestualizzato (ad esempio utilizzando questionari e griglie standard) delle situazioni di ascolto di vari gruppi composti con criteri astratti e impersonali è molto presente il rischio che vengano offerte delle opportunità di sfogo, che si colorano di lamentazione/deplorazione con cui si pensa di poter influenzare i comportamenti, o di colpevolizzazione di alcuni che di volta in volta sono i dirigenti, se si esprimono i collaboratori o i vari dipendenti, se ad esprimersi sono le figure direttive. Il rischio inscritto in queste iniziative è che nel prendere atto di insoddisfazioni e negatività più esplicitamente dichiarate (anche se già prima si potevano comunque supporre) non si veda altro sbocco che ribadire ulteriormente quelli che diventano dei veri e propri precetti (come le richieste di velocità e di flessibilità ormai divenute al contempo sinonimi e imperativi della modernità), particolarmente paradossali se rivolti a capi intermedi e dirigenti che sembrano non collocarsi o non volersi collocare rispetto a generiche e modaiole prescrizioni come il lavorare in team, l'essere integrati, il fare gruppo e così via.

 


Effetti collaterali

 

Per riprendere il parallelo con quanto accade per alcune soluzioni mediche sembra che, anche nel trattamento della complessità organizzativa, si attivi quella che metaforicamente potremmo dire una scissione tra corpo e mente, tra razionalità e sentimenti/emozioni. Ci si concentra sul corpo delle organizzazioni senza pensare a quanto accade alle persone che le animano. Forse così come "lo sguardo medico non incontra il malato, ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia, ma una patologia IO", anche chi si occupa di organizzazioni tende a trovare soluzioni che eliminano sintomi senza avvicinarli, comprenderli ed utilizzarli per conoscere e costruire nella realtà la biografia, la storia e quindi il futuro di quelle stesse organizzazioni e delle persone che vi lavorano.

 

Quali sono infatti i probabili esiti che le modalità più frequenti di gestione della complessità producono sugli individui che lavorano, rischiando di generare situazioni di malessere sia a livello individuale che organizzativo?

 

La lettura attraverso uno sguardo psicosociologico ci sembra riesca a mettere in luce come la frantumazione organizzativa a cui quasi inevitabilmente si arriva, implica per i singoli che lavorano all'interno dell'organizzazione un moltiplicarsi e differenziarsi di riferimenti, anche con posizioni contrastanti e persino contraddittorie, che comportano sempre più consistenti difficoltà di collocarsi e legittimarsi. I cambiamenti organizzativi ¬imposti o proposti - non sembrano più orientati ad una logica ottimistica di miglioramento e progresso. AI contrario, possono alimentare un immaginario di perdita, di declino che suscita interrogativi inquietanti sull'esistenza o il mantenimento del proprio ruolo, sulla consistenza e utilità della funzione esercitata. Si insinua, anche indipendentemente da verifiche di realtà, un senso di fragilità e di precarietà. Dilagano apprensioni, assilli, preoccupazioni non solo per il futuro, ma anche per lo stesso presente. E tutto questo ha un impatto notevole sulla costruzione e ri-costruzione delle identità personali e professionali dei singoli, così come su quelle dei gruppi e dell'organizzazione nel suo complesso, nonché sulla natura e lo tipologia di legami che si intrecciano o si sciolgono rispetto alla professione, agli oggetti di lavoro ed alle relazioni di tipo verticale ed orizzontale.

 

La questione dell'identità ci sembra, quindi, che meriti di assumere una posizione centrale nella analisi degli esiti e nella costruzione di nuove ipotesi di trattamento della complessità proprio perché pensiamo che abbia un ruolo fondamentale sia nella reale costruzione di legami organizzativi che nello sviluppo di quelle capacità creative e di adattamento dinamico che sono sempre più necessarie nei vari contesti interni ed esterni di riferimento per assumere e gestire le interdipendenze ed i vincoli". L'identità lavorativa e sociale (ancora perno centrale dell'identità personale) non è infatti un dato che esiste una volta per tutte, esito e conferma di una raggiunta realizzazione di sé: si costruisce piuttosto nel corso dell'esistenza di ciascuno non in modo autoreferenziale (con certificazioni formali di posizioni raggiunte), ma nelle incessanti ed inevitabili relazioni che il singolo intrattiene con lo società, con le sue diverse configurazioni che forniscono una pluralità di riferimenti, di modelli, di collocazioni, di aggregazioni che rappresentano altrettanti supporti e appigli cui gli individui si collegano per sviluppare l'identità, e che orientano le scelte ed i modi di pensare e di agire.

 

Molti dei segnali di malessere organizzativo che si possano leggere nelle organizzazioni implicano lo questione dell'identità. Le persone sono spesso scontente, amareggiate, deluse, si sentono svalutate, compresse e represse. Per i singoli i percorsi identitari diventano sempre più faticosi, rischiosi, oscuri, poco prevedibili. Ci si sente più soli, confusi e minacciati, anche da richieste che vengono percepite come eccedenti rispetto alle proprie possibilità e capacità, con impatti a livello di senso di adeguatezza e di autostima. Sembra dunque che oggi nella complessità e nelle modalità con cui lo si legge, affronta e gestisce si tengano in scarsa considerazione le attese, le richieste che le persone hanno di identità e di riconoscimento.

 

Forse ci si sofferma troppo poco a riconoscere e valutare che i cambiamenti organizzativi, sempre più frequenti ed imperanti, investono i più importanti riferimenti identitari che le organizzazioni tradizionalmente fornivano: appartenenze, strutture gerarchiche, oggetti e gruppi di lavoro, sistemi di valutazione e di premio, scelte valoriali; tutto questo è probabilmente strettamente connesso agli atteggiamenti di ossequiente sottomissione, di scettica presa di distanza o di implicito rifiuto che i singoli manifestano rispetto alle trasformazioni ritenute e definite come necessarie all'interno delle organizzazioni. Un esempio per tutti può essere lo crescente introduzione di nuovi strumenti informatici che alterano completamente il rapporto del singolo con le attività e con gli altri colleghi. In un'azienda ospedaliera lo sostituzione delle attività segretariali di preparazione e consegna ai medici dei referti con programmi informatici che chiedono al professionista lo consultazione diretta del referto ha generato forti proteste in nome di una "distrazione" e di uno "svilimento" rispetto alla propria attività professionale. In molte aziende industriali, l'introduzione dei sistemi gestionali di tipo ERP ha reso sempre più importanti e forti le categorie professionali degli informatici e sempre più deboli ed isolate le persone, magari di una certa età, che non hanno una grande dimestichezza operativa con l'utilizzo del PC, con il rischio anche che si attivino duplicazioni di attività perché queste stesse persone continuano ad applicare in parallelo le loro tradizionali modalità di lavoro.

 

Sia sul piano organizzativo che su quello professionale si riescono a vedere sempre meno i percorsi per consolidare lo propria identità, mentre rimane invariata l'aspettativa che lo svolgimento del proprio lavoro contribuisca alla realizzazione del sé, delle proprie aspirazioni, idee e convinzioni e che sia, quindi, fattore di rinforzo e di conferma della identità personale e della propria emancipazione. Nella situazione lavorativa ciascuno porta capacità, competenze, doti per lo svolgimento del lavoro, tempo, fatiche, ansie e si aspetta di averne in cambio una retribuzione monetizzabile "adeguata" e crescente, ma le attese soggettive riguardano solo in parte lo retribuzione in senso stretto. Ci si aspetta di poter svolgere compiti e attività che siano corrispondenti alle proprie inclinazioni e ai propri interessi, alle proprie abilità specifiche e ci si aspetta anche che le attività che si svolgono, trovino riscontri positivi, che siano apprezzate da chi ne usufruisce direttamente - i destinatari - ma anche, e a volte soprattutto, da coloro con cui si è più continuamente in contatto, con cui si condivide ogni giorno lo svolgimento dell'attività, colleghi e in particolare capi: coloro cioè che vengono ritenuti interlocutori importanti perché competenti e/o perché continuamente presenti.  Quello che ci sembra si sperimenti sempre più frequentemente all'interno delle organizzazioni è un orientamento che contrappone il singolo all'organizzazione.

 

Da una parte vi sono le organizzazioni che, per sostenere i continui processi di cambiamento, chiedono sempre più di stare in situazioni in cui strutture, gerarchie e regole vanno rigidamente rispettate e contemporaneamente introducono discontinuità, richieste di flessibilità, legami deboli, percorsi meno chiari e lineari, risposte provvisorie, parziali, mobili.

 

Dall'altra parte vi sono le persone che, vivendo delusioni, amarezze, cadute di autostima, ricercano sempre più affannosamente ed insistentemente di avere qualcosa di solido e chiaro per lo propria vita, aumentano le proprie aspettative soggettive, traducono tutto questo in rabbia e frustrazioni che non riescono ad elaborare da soli, vivono le discontinuità come perdita e diventano sempre più dipendenti dai giudizi altrui e più incapaci di stare nelle contrapposizioni che vengono lette come disconferme del sé. l'insistenza pressante di lavorare sull'identità porta pertanto a ricercare continuamente rinforzi positivi; ogni critica, ogni posizione e valutazione differente, ogni problema rischia di essere vissuto come una ferita insopportabile. Tutto questo impedisce, di fatto, lo sviluppo di processi identitari ed il riconoscimento che anche le disconferme hanno un ruolo ed una funzione di stimolo essenziale per una costruzione consapevole della propria identità. I rimandi che sottolineano errori anziché essere visti come costruttivi per lo sviluppo della professionalità e delle competenze vengono generalizzati e presi come squalifiche. In queste situazioni, ad esempio, le attività di valutazione vengono rifuggite tanto dai valutati quanto dai valutatori perché espongono entrambi all'affanno di gestire tensioni e conflitti emotivi che predominano quando tutto viene personalizzato. Sono questi i casi in cui ci si può sentire dire dal primario di un ospedale che "i medici sono diventati dei passacarte", perché devono dare sistematicamente dei rendiconti agli uffici amministrativi, oppure che "sono diventati servi" perché per timore di essere contestati dai pazienti sulle scelte terapeutiche devono fare quello che il paziente (cliente!) richiede o persino esige. Oppure casi in cui i capi intermedi, sollecitati ad affrontare più apertamente demotivazioni e prese di distanza dei collaboratori, rappresentandosi di non poter porsi come "comandanti", rispondono: "se non posso dare aumenti, cosa gli parlo a fare?".

 

Pur vivendo in contesti che sempre più comunemente vengono definiti mobili, liquidi", le persone cercano caparbiamente di difendere delle identità che potremmo definire statiche, fino ad arrivare al punto che lo conquista ed il mantenimento di una identità statico diventa un pre-requisito per stare nella organizzazione (quante volte ci sentiamo dire: "dovete dirmi quale è il mio ruolo, cosa devo fare").

 

Per identità statica intendiamo una percezione di sé ben vincolata a dimensioni istituzionali e ad un sapere costituito, che dà lo tranquillità che quello che si è raggiunto è qualcosa che va bene, che darà soddisfazioni, legittimazioni, gratificazioni da tutti i punti di vista. In funzione del raggiungi mento/possesso di identità statico si cerca un posto in cui poter stare, saldo, garantito, protetto, che dà appartenenza omogenea ad un ben riconoscibile gruppo professionale. Un posto in cui sentirsi a proprio agio, riconosciuti, rassicurati dalla condivisione di un linguaggio comune.

 

Un'identità che potremmo sintetizzare nella posizione sono, quindi faccio" e che crea, più o meno consapevolmente, la necessità d mettersi in una costante posizione di difesa rispetto ai continui attacchi esterni che ne minacciano la solidità. Difesa che può anche voler dire negazione o rimozione di problemi.

 

È ipotizzabile, quindi, che una delle condizioni all'origine del malessere che sempre più diffusamente si percepisce a livello individuale ed organizzativo si nasconda proprio nella distanza tra le attese/pretese dei singoli e quelle della organizzazione rispetto ai modi ed ai risultati di costruzione dei processi identitari. Una seconda ipotesi è che tutto questo indebolisca fortemente e pericolosamente il rapporto con i legami ed i vincoli organizzativi che sono proprio gli elementi su cui si fonda il senso dell'agire organizzato. Una terza ipotesi è che le organizzazioni, pur andando in una direzione che sembra rendere fondamentale da parte dei soggetti l'assunzione di un orientamento dinamico, non investano realmente, non dedichino tempo e risorse sufficienti ad esplicitare, condividere, chiarire con i singoli quali siano le reali attese per tradurre, in comportamenti ed azioni concrete e valutabili, la costruzione di processi identitari dinamici.

 

Il problema è che le organizzazioni di oggi sono sempre meno capaci e disponibili a fornire supporto alla costruzione di questo tipo di identità e sembrano richiedere e necessitare, al contrario, di identità che potremmo definire dinamiche.

 

Per identità dinamica intendiamo una percezione che si nutre di riferimenti vari e provvisori che mutano nel tempo e nello spazio. Peraltro si tratta di riferimenti che vengono messi a disposizione non solo e non sempre dall' organizzazione, non sono neppure immediatamente e direttamente offerti: vanno ricercati attivamente dai singoli e dai gruppi, a volte quasi "presi al volo" a seconda dei vari incontri con la realtà. Nell' orientamento dinamico quello che fa crescere l'identità e che nutre il senso ed il riconoscimento di sé è soprattutto il contenuto del lavoro, quello che il singolo riesce a realizzare con gli altri, la consapevolezza di partecipare ad un processo di ricomposizione del sapere e di produzione di nuova conoscenza. È un posizionamento, questo, che espone indubbiamente al rischio e che richiede di sopportare l'incertezza, di accettare "l'errare" da vivere come occasione per incontrare l'errore e per usarlo al fine di rielaborare esperienze invece di viverlo come qualcosa che distrugge certezze, immagini, riconoscimenti. È un orientamento in cui il senso di debolezza viene utilizzato come chiave per interrogarsi, in cui l'accettare di essere fragili, di non sapere, consente di stare nelle frammentazioni provando a non subirle bensì a capirle, esplorarle, conoscerle, investirle di significati".

 

Un'identità che potremmo sintetizzare nella posizione "faccio, quindi sono" e che punta sulla imprenditività soggettiva, sul coraggio di muoversi, esplorare, provare, rischiare, sulla capacità di smarcarsi da gerarchie fisse lavorando su dissimmetrie mobili.

 

Per lo più accade che si tenda a delegare, ad abbandonare completamente al singolo individuo responsabilità e iniziative che facilitano adattamenti e evoluzioni. Diventa così apprezzato e apprezzabile chi è più capace di cavarsela da solo e, con le proprie disponibilità a piegarsi alle più varie richieste, rende più lineare e immediata la messa in atto di decisioni faticose, richieste dai nuovi assetti di produzione e di commercializzazione". Da un lato si spinge nel senso che ognuno deve arrangiarsi e dall'altra si chiede di accettare con atteggiamento obbediente.

 

Su un piano più generale questa sorta di abdicazione da parte dei ruoli di direzione collocati ai vari livelli dell'organizzazione rispetto al riconoscimento e alla gestione ravvicinata delle dimensioni affettivo - relazionali e dei processi di identificazione, non costituisce forse una scelta politica di de-responsabilizzazione, di chiusura e/o di ritiro nei confronti di quegli impatti che le scelte organizzative comportano e che possono contribuire ad alimentare anche quei segnali di disgregazione sociale (insicurezza, micro criminalità, violenza diffusa, ... ) che tanto si deplorano e si vorrebbero contrastare?


 

 

Costruire Senso del Lavoro

 

Le analisi, più suggerite che approfondite, che abbiamo fin qui esposto, hanno segnalato alcuni limiti e scivolamenti delle soluzioni organizzative che vengono studiate nelle organizzazioni di oggi per fronteggiare lo complessità, e provano a sollecitare lo sperimentazione di altre vie; ci sembra che quanto detto possa essere di interesse anche per una riflessione su come lo politica si rappresenta, tratta ed agisce rispetto alla complessità crescente della società e dei problemi che lo attraversano. A noi sembra interessante e fruttuoso tenere presente e quindi segnalare come nella complessità l'orientamento che ragionevolmente consente di tenere la rotta sia la ricomposizione: tenere insieme e riformulare costantemente il senso, le motivazioni, le differenze di posizione, per rendere le persone il più possibile capaci di reggere e mantenere lo complessità, invece di muoversi solo per aggiunte, moltiplicazioni o, al contrario, rimozioni.

 

Una strada più costruttiva ci sembra pertanto essere quella di ricostruire delle condizioni di lavoro in cui le persone possano sviluppare processi di identificazione positivi che permettano di riconoscere e apprezzare il senso e il valore di quello che si fa. È soprattutto il disporre di una rappresentazione sufficientemente esplicita e chiara di ciò che si è chiamati a realizzare, (del perché e del come è importante operare), che può consentire a ciascuno di collocare il proprio contributo in modo più realistico ed appropriato, più consapevole, congruente ed appagante le proprie attese, senza farle divenire pretese del tutto scollegate e scisse rispetto al contesto di appartenenza.

 

Questo introduce anche un rapporto diverso con lo responsabilità dei singoli nella costruzione del benessere organizzativo o nella riduzione delle condizioni di malessere. Sarebbe importante, infatti, che ogni soggetto si rappresentasse che il benessere va co-costruito cercando, tra più attori organizzativi, di contenere e ridurre, attenuare e aggiustare le contraddizioni e i fraintendi menti che ogni giorno si incontrano. È molto difficile perseguire il proprio benessere individuale isolandosi, separando lo propria attività da quella degli altri: è il gioco cooperativo più che competitivo che consente di stare più serenamente nel luogo di lavoro e da lì di poter collocarsi anche nel contesto sociale con modalità di interazione più adeguate alla convivenza in una società sconquassata, attraversata da crisi continue.

 

D'altra parte, come abbiamo provato ad evidenziare, i contesti interni ed esterni in cui si muovono oggi le organizzazioni rendono sempre più centrale il ruolo della creatività per sostenere lo costruzione di soluzioni dinamiche, sperimentali, adattabili che richiedono ai singoli di spogliarsi dalle prescrizioni e dagli automatismi interiorizzati a livello di pensieri ed azioni.

 

Da questo punto di vista anche la creatività implica un consistente impegno relazionale; si nutre di legami, di scambi, di cooperazione nelle diversità, nelle possibili, ed a volte auspicabili contrapposizioni, in una logica negoziale che è una logica in cui le differenze vengono ri-conosciute, legittimate, simmetriche, ma anche e soprattutto collegate.

 

La centratura sulla costruzione dei legami organizzativi, come "luoghi" metaforici in cui costruire il senso dell'agire e del cambiamento organizzativo rende anche possibile sottolineare l'importanza di riscoprire il ruolo delle formazioni intermedie, dei sottosistemi in cui il singolo è concretamente inserito.

 

La possibilità di sviluppare un'identità dinamica crediamo che passi dalla capacità di costruire delle zone intermedie, delle aree circoscritte in cui costruire reticoli e sperimentare strade innovative sia sul piano del sapere che su quello dell'agire. Un maggiore investimento nei gruppi di lavoro, come formazioni intermedie tra il singolo e l'organizzazione, può rappresentare in questo senso un lavoro organizzativo molto importante per promuovere l'identificazione, una scelta politica costruttiva.

 

L'Organizzazione Mondiale della Sanità (per ritornare alle connessioni con lo visione medica richiamate all'inizio dell' articolo) afferma che nella definizione di salute occorre tener conto di almeno tre dimensioni: l'assenza di sintomi o segni di malattia, un sentimento di benessere, lo capacità di agire. Anche nelle organizzazioni pensiamo sia utile concentrarsi su quali possano essere le condizioni di benessere e capire come i soggetti possano diventarne interlocutori attivi.

 

Sappiamo che non esiste una definizione univoca per i concetti di benessere e di malessere, bensì una pluralità di prospettive influenzate anche dai contesti culturali di riferimento. Potremmo immaginare il benessere lavorativo non tanto - come forse a volte molti auspicano - come una pianura ben arata e ordinata, irrigata e ben coltivata ma come un bosco folto e ricco di vegetazione inevitabilmente intricato in cui non ci sono cartelli con indicazioni di direzione ben chiari. Ci sono piuttosto segnali da cogliere, da decodificare. Ciascuno è importante che si riprenda la propria iniziativa, che reinvesta nelle proprie capacità e che ri-veda le proprie attese, ma è anche necessario che tra i molti che attraversano lo stesso bosco si creino le condizioni per individuare dei sentieri facilitanti, per co-costruire delle situazioni lavorative più soddisfacenti. E questo richiede nuovi modi di interagire con i contenuti del lavoro e tra colleghi e capi; richiede di apprendere per intraprendere, per reinventare le coordinate entro cui possa essere svolto un buon lavoro.

 

Non possiamo avere certezze di star bene, ma possiamo perseguire delle condizioni di lavoro più vivibili per, e non contro, i singoli e per l'organizzazione.

 

Nel parallelo con il mondo politico, provare ad essere interlocutori attivi nelle organizzazioni potrebbe anche favorire lo sviluppo di una cittadinanza più attiva ed anche questo potrebbe essere un passaggio politico importante.

 

I cittadini attivi sono persone che assumono nei confronti della collettività doveri ulteriori rispetto a quelli che comporta normalmente lo status di cittadino, cercando di dare risposte non solo ai propri problemi, ma anche a quelli che riguardano tutti gli altri. Sono cioè persone che hanno capito che anche la risposta ai propri problemi si trova dando risposta, insieme con altri, ai problemi di tutti e non (come oggi molti credono) cercando più o meno furbescamente soluzioni di tipo individuale ai problemi collettivi.

“GESTIRE LE ORGANIZZAZIONI: DAL MALESSERE ORGANIZZATIVO ALLA COSTRUZIONE DI SENSO”

di Cinzia D'Agostino, Franca Olivetti Manoukian.

Pubblicato in “SPUNTI” Semestrale per la Ricerca e l’Azione nelle Organizzazioni

Studio APS Milano – Ottobre 2009 – Anno X - N.12.