Stress lavoro correlato

Stress lavoro correlato e benessere organizzativo

Effetti collaterali

 

Per riprendere il parallelo con quanto accade per alcune soluzioni mediche sembra che, anche nel trattamento della complessità organizzativa, si attivi quella che metaforicamente potremmo dire una scissione tra corpo e mente, tra razionalità e sentimenti/emozioni. Ci si concentra sul corpo delle organizzazioni senza pensare a quanto accade alle persone che le animano. Forse così come "lo sguardo medico non incontra il malato, ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia, ma una patologia IO", anche chi si occupa di organizzazioni tende a trovare soluzioni che eliminano sintomi senza avvicinarli, comprenderli ed utilizzarli per conoscere e costruire nella realtà la biografia, la storia e quindi il futuro di quelle stesse organizzazioni e delle persone che vi lavorano.

 

Quali sono infatti i probabili esiti che le modalità più frequenti di gestione della complessità producono sugli individui che lavorano, rischiando di generare situazioni di malessere sia a livello individuale che organizzativo?

 

La lettura attraverso uno sguardo psicosociologico ci sembra riesca a mettere in luce come la frantumazione organizzativa a cui quasi inevitabilmente si arriva, implica per i singoli che lavorano all'interno dell'organizzazione un moltiplicarsi e differenziarsi di riferimenti, anche con posizioni contrastanti e persino contraddittorie, che comportano sempre più consistenti difficoltà di collocarsi e legittimarsi. I cambiamenti organizzativi ¬imposti o proposti - non sembrano più orientati ad una logica ottimistica di miglioramento e progresso. AI contrario, possono alimentare un immaginario di perdita, di declino che suscita interrogativi inquietanti sull'esistenza o il mantenimento del proprio ruolo, sulla consistenza e utilità della funzione esercitata. Si insinua, anche indipendentemente da verifiche di realtà, un senso di fragilità e di precarietà. Dilagano apprensioni, assilli, preoccupazioni non solo per il futuro, ma anche per lo stesso presente. E tutto questo ha un impatto notevole sulla costruzione e ri-costruzione delle identità personali e professionali dei singoli, così come su quelle dei gruppi e dell'organizzazione nel suo complesso, nonché sulla natura e lo tipologia di legami che si intrecciano o si sciolgono rispetto alla professione, agli oggetti di lavoro ed alle relazioni di tipo verticale ed orizzontale.

 

La questione dell'identità ci sembra, quindi, che meriti di assumere una posizione centrale nella analisi degli esiti e nella costruzione di nuove ipotesi di trattamento della complessità proprio perché pensiamo che abbia un ruolo fondamentale sia nella reale costruzione di legami organizzativi che nello sviluppo di quelle capacità creative e di adattamento dinamico che sono sempre più necessarie nei vari contesti interni ed esterni di riferimento per assumere e gestire le interdipendenze ed i vincoli". L'identità lavorativa e sociale (ancora perno centrale dell'identità personale) non è infatti un dato che esiste una volta per tutte, esito e conferma di una raggiunta realizzazione di sé: si costruisce piuttosto nel corso dell'esistenza di ciascuno non in modo autoreferenziale (con certificazioni formali di posizioni raggiunte), ma nelle incessanti ed inevitabili relazioni che il singolo intrattiene con lo società, con le sue diverse configurazioni che forniscono una pluralità di riferimenti, di modelli, di collocazioni, di aggregazioni che rappresentano altrettanti supporti e appigli cui gli individui si collegano per sviluppare l'identità, e che orientano le scelte ed i modi di pensare e di agire.

 

Molti dei segnali di malessere organizzativo che si possano leggere nelle organizzazioni implicano lo questione dell'identità. Le persone sono spesso scontente, amareggiate, deluse, si sentono svalutate, compresse e represse. Per i singoli i percorsi identitari diventano sempre più faticosi, rischiosi, oscuri, poco prevedibili. Ci si sente più soli, confusi e minacciati, anche da richieste che vengono percepite come eccedenti rispetto alle proprie possibilità e capacità, con impatti a livello di senso di adeguatezza e di autostima. Sembra dunque che oggi nella complessità e nelle modalità con cui lo si legge, affronta e gestisce si tengano in scarsa considerazione le attese, le richieste che le persone hanno di identità e di riconoscimento.

 

Forse ci si sofferma troppo poco a riconoscere e valutare che i cambiamenti organizzativi, sempre più frequenti ed imperanti, investono i più importanti riferimenti identitari che le organizzazioni tradizionalmente fornivano: appartenenze, strutture gerarchiche, oggetti e gruppi di lavoro, sistemi di valutazione e di premio, scelte valoriali; tutto questo è probabilmente strettamente connesso agli atteggiamenti di ossequiente sottomissione, di scettica presa di distanza o di implicito rifiuto che i singoli manifestano rispetto alle trasformazioni ritenute e definite come necessarie all'interno delle organizzazioni. Un esempio per tutti può essere lo crescente introduzione di nuovi strumenti informatici che alterano completamente il rapporto del singolo con le attività e con gli altri colleghi. In un'azienda ospedaliera lo sostituzione delle attività segretariali di preparazione e consegna ai medici dei referti con programmi informatici che chiedono al professionista lo consultazione diretta del referto ha generato forti proteste in nome di una "distrazione" e di uno "svilimento" rispetto alla propria attività professionale. In molte aziende industriali, l'introduzione dei sistemi gestionali di tipo ERP ha reso sempre più importanti e forti le categorie professionali degli informatici e sempre più deboli ed isolate le persone, magari di una certa età, che non hanno una grande dimestichezza operativa con l'utilizzo del PC, con il rischio anche che si attivino duplicazioni di attività perché queste stesse persone continuano ad applicare in parallelo le loro tradizionali modalità di lavoro.

 

Sia sul piano organizzativo che su quello professionale si riescono a vedere sempre meno i percorsi per consolidare lo propria identità, mentre rimane invariata l'aspettativa che lo svolgimento del proprio lavoro contribuisca alla realizzazione del sé, delle proprie aspirazioni, idee e convinzioni e che sia, quindi, fattore di rinforzo e di conferma della identità personale e della propria emancipazione. Nella situazione lavorativa ciascuno porta capacità, competenze, doti per lo svolgimento del lavoro, tempo, fatiche, ansie e si aspetta di averne in cambio una retribuzione monetizzabile "adeguata" e crescente, ma le attese soggettive riguardano solo in parte lo retribuzione in senso stretto. Ci si aspetta di poter svolgere compiti e attività che siano corrispondenti alle proprie inclinazioni e ai propri interessi, alle proprie abilità specifiche e ci si aspetta anche che le attività che si svolgono, trovino riscontri positivi, che siano apprezzate da chi ne usufruisce direttamente - i destinatari - ma anche, e a volte soprattutto, da coloro con cui si è più continuamente in contatto, con cui si condivide ogni giorno lo svolgimento dell'attività, colleghi e in particolare capi: coloro cioè che vengono ritenuti interlocutori importanti perché competenti e/o perché continuamente presenti.  Quello che ci sembra si sperimenti sempre più frequentemente all'interno delle organizzazioni è un orientamento che contrappone il singolo all'organizzazione.

 

Da una parte vi sono le organizzazioni che, per sostenere i continui processi di cambiamento, chiedono sempre più di stare in situazioni in cui strutture, gerarchie e regole vanno rigidamente rispettate e contemporaneamente introducono discontinuità, richieste di flessibilità, legami deboli, percorsi meno chiari e lineari, risposte provvisorie, parziali, mobili.

 

Dall'altra parte vi sono le persone che, vivendo delusioni, amarezze, cadute di autostima, ricercano sempre più affannosamente ed insistentemente di avere qualcosa di solido e chiaro per lo propria vita, aumentano le proprie aspettative soggettive, traducono tutto questo in rabbia e frustrazioni che non riescono ad elaborare da soli, vivono le discontinuità come perdita e diventano sempre più dipendenti dai giudizi altrui e più incapaci di stare nelle contrapposizioni che vengono lette come disconferme del sé. l'insistenza pressante di lavorare sull'identità porta pertanto a ricercare continuamente rinforzi positivi; ogni critica, ogni posizione e valutazione differente, ogni problema rischia di essere vissuto come una ferita insopportabile. Tutto questo impedisce, di fatto, lo sviluppo di processi identitari ed il riconoscimento che anche le disconferme hanno un ruolo ed una funzione di stimolo essenziale per una costruzione consapevole della propria identità. I rimandi che sottolineano errori anziché essere visti come costruttivi per lo sviluppo della professionalità e delle competenze vengono generalizzati e presi come squalifiche. In queste situazioni, ad esempio, le attività di valutazione vengono rifuggite tanto dai valutati quanto dai valutatori perché espongono entrambi all'affanno di gestire tensioni e conflitti emotivi che predominano quando tutto viene personalizzato. Sono questi i casi in cui ci si può sentire dire dal primario di un ospedale che "i medici sono diventati dei passacarte", perché devono dare sistematicamente dei rendiconti agli uffici amministrativi, oppure che "sono diventati servi" perché per timore di essere contestati dai pazienti sulle scelte terapeutiche devono fare quello che il paziente (cliente!) richiede o persino esige. Oppure casi in cui i capi intermedi, sollecitati ad affrontare più apertamente demotivazioni e prese di distanza dei collaboratori, rappresentandosi di non poter porsi come "comandanti", rispondono: "se non posso dare aumenti, cosa gli parlo a fare?".

 

Pur vivendo in contesti che sempre più comunemente vengono definiti mobili, liquidi", le persone cercano caparbiamente di difendere delle identità che potremmo definire statiche, fino ad arrivare al punto che lo conquista ed il mantenimento di una identità statico diventa un pre-requisito per stare nella organizzazione (quante volte ci sentiamo dire: "dovete dirmi quale è il mio ruolo, cosa devo fare").

 

Per identità statica intendiamo una percezione di sé ben vincolata a dimensioni istituzionali e ad un sapere costituito, che dà lo tranquillità che quello che si è raggiunto è qualcosa che va bene, che darà soddisfazioni, legittimazioni, gratificazioni da tutti i punti di vista. In funzione del raggiungi mento/possesso di identità statico si cerca un posto in cui poter stare, saldo, garantito, protetto, che dà appartenenza omogenea ad un ben riconoscibile gruppo professionale. Un posto in cui sentirsi a proprio agio, riconosciuti, rassicurati dalla condivisione di un linguaggio comune.

 

Un'identità che potremmo sintetizzare nella posizione sono, quindi faccio" e che crea, più o meno consapevolmente, la necessità d mettersi in una costante posizione di difesa rispetto ai continui attacchi esterni che ne minacciano la solidità. Difesa che può anche voler dire negazione o rimozione di problemi.

 

È ipotizzabile, quindi, che una delle condizioni all'origine del malessere che sempre più diffusamente si percepisce a livello individuale ed organizzativo si nasconda proprio nella distanza tra le attese/pretese dei singoli e quelle della organizzazione rispetto ai modi ed ai risultati di costruzione dei processi identitari. Una seconda ipotesi è che tutto questo indebolisca fortemente e pericolosamente il rapporto con i legami ed i vincoli organizzativi che sono proprio gli elementi su cui si fonda il senso dell'agire organizzato. Una terza ipotesi è che le organizzazioni, pur andando in una direzione che sembra rendere fondamentale da parte dei soggetti l'assunzione di un orientamento dinamico, non investano realmente, non dedichino tempo e risorse sufficienti ad esplicitare, condividere, chiarire con i singoli quali siano le reali attese per tradurre, in comportamenti ed azioni concrete e valutabili, la costruzione di processi identitari dinamici.

 

Il problema è che le organizzazioni di oggi sono sempre meno capaci e disponibili a fornire supporto alla costruzione di questo tipo di identità e sembrano richiedere e necessitare, al contrario, di identità che potremmo definire dinamiche.

 

Per identità dinamica intendiamo una percezione che si nutre di riferimenti vari e provvisori che mutano nel tempo e nello spazio. Peraltro si tratta di riferimenti che vengono messi a disposizione non solo e non sempre dall' organizzazione, non sono neppure immediatamente e direttamente offerti: vanno ricercati attivamente dai singoli e dai gruppi, a volte quasi "presi al volo" a seconda dei vari incontri con la realtà. Nell' orientamento dinamico quello che fa crescere l'identità e che nutre il senso ed il riconoscimento di sé è soprattutto il contenuto del lavoro, quello che il singolo riesce a realizzare con gli altri, la consapevolezza di partecipare ad un processo di ricomposizione del sapere e di produzione di nuova conoscenza. È un posizionamento, questo, che espone indubbiamente al rischio e che richiede di sopportare l'incertezza, di accettare "l'errare" da vivere come occasione per incontrare l'errore e per usarlo al fine di rielaborare esperienze invece di viverlo come qualcosa che distrugge certezze, immagini, riconoscimenti. È un orientamento in cui il senso di debolezza viene utilizzato come chiave per interrogarsi, in cui l'accettare di essere fragili, di non sapere, consente di stare nelle frammentazioni provando a non subirle bensì a capirle, esplorarle, conoscerle, investirle di significati".

 

Un'identità che potremmo sintetizzare nella posizione "faccio, quindi sono" e che punta sulla imprenditività soggettiva, sul coraggio di muoversi, esplorare, provare, rischiare, sulla capacità di smarcarsi da gerarchie fisse lavorando su dissimmetrie mobili.

 

Per lo più accade che si tenda a delegare, ad abbandonare completamente al singolo individuo responsabilità e iniziative che facilitano adattamenti e evoluzioni. Diventa così apprezzato e apprezzabile chi è più capace di cavarsela da solo e, con le proprie disponibilità a piegarsi alle più varie richieste, rende più lineare e immediata la messa in atto di decisioni faticose, richieste dai nuovi assetti di produzione e di commercializzazione". Da un lato si spinge nel senso che ognuno deve arrangiarsi e dall'altra si chiede di accettare con atteggiamento obbediente.

 

Su un piano più generale questa sorta di abdicazione da parte dei ruoli di direzione collocati ai vari livelli dell'organizzazione rispetto al riconoscimento e alla gestione ravvicinata delle dimensioni affettivo - relazionali e dei processi di identificazione, non costituisce forse una scelta politica di de-responsabilizzazione, di chiusura e/o di ritiro nei confronti di quegli impatti che le scelte organizzative comportano e che possono contribuire ad alimentare anche quei segnali di disgregazione sociale (insicurezza, micro criminalità, violenza diffusa, ... ) che tanto si deplorano e si vorrebbero contrastare?