Stress lavoro correlato

Stress lavoro correlato e benessere organizzativo

Nel sentire comune il termine stress è utilizzato nelle più svariate situazioni. E, il più delle volte, è riferito a stati d’animo soggettivi.

Quindi, il primo passo da compiere, a nostro avviso per fare un po’ di chiarezza, è quello di distinguere le definizioni generali sia dalle percezioni soggettive, sia da specifici contesti sociali. Ovviamente tutto ciò ci occorre solo per analizzare nel dettaglio ogni singolo aspetto, ma è ormai universalmente riconosciuto dalla comunità scientifica e dagli addetti ai lavori che l’interazione di diversi fattori (individuali, sociali, contestuali in genere) contribuiscono a creare una situazione di stress più o meno adattiva. Ma parlare di stress è sempre e comunque un rischio. Il rischio è di dare per scontato che, trattandosi di qualcosa che sentiamo presente nelle nostre vite quotidiane, sia del tutto inutile parlarne. Per noi, proprio per gli stessi motivi, invece, diventa fondamentale non sottovalutare l’impatto dello stress sulla nostra vita. Perché se nella sua accezione positiva, lo stress è una risposta adattiva alle richieste dell’ambiente, è anche vero che non siamo affatto abituati a percepire quando la “misura è colma”, se non quando oramai è troppo tardi. Per comprendere meglio quest’ultima affermazione, prendiamo una evidenza soggettiva riferita a tutt’altro: la qualità dell’aria.

Se provate a vivere per due settimane consecutive in alta montagna (ci rivolgiamo a tutti coloro che vivono tutto il resto dell’anno in città medio-grandi), forse non vi accorgerete che il vostro olfatto si sta modificando e neanche che il vostro organismo sta apprezzando una migliore qualità dell’aria. Dopo due settimane scendete a valle, anche solo su una strada trafficata, scendete dalla vostra auto e noterete come il vostro olfatto sentirà immediatamente la differenza! Per poco, ovviamente. Perché il nostro cervello conosce bene lo smog e quindi, suo malgrado, lo reputa respirabile. Ma la prima sensazione di disgusto nel passaggio tra due diverse qualità dell’aria è un potente messaggio: l’organismo si adatta all’ambiente, anche se l’ambiente lo disgusta e/o lo danneggia. In questo caso il danno è talmente diluito nel tempo che finiamo per non percepirlo più come danno!

Ecco perché parlare di stress significa mettere sotto osservazione stimoli e situazioni potenzialmente dannosi, non solo dal punto di vista soggettivo, ma soprattutto dal punto di vista delle evidenze scientifiche, nazionali ed internazionali. Perché quando si arriva alla soggettività, il danno è già stato fatto! 


Lo stress può essere di due tipi: eustress (eu: in greco, buono, bello) o distress (dis: cattivo, morboso). L'eustress, o stress buono, è quello indispensabile alla vita, che si manifesta sotto forma di stimolazioni ambientali costruttive ed interessanti. Un esempio può essere una promozione lavorativa, la quale attribuisce maggiori responsabilità ma anche maggiori soddisfazioni. Il distress è invece lo stress cattivo, quello che provoca grossi scompensi emotivi e fisici difficilmente risolvibili. Un esempio può essere un licenziamento inaspettato, oppure un intervento chirurgico.

Ognuno di noi risponde agli eventi stressanti in modo diverso, questo perché ogni persona fa esperienze diverse e fa proprie strategie interpretative e di pensiero diverse. Inoltre un ruolo fondamentale nell'interpretazione degli eventi, sia interni che esterni, spetta all'apprendimento. Noi impariamo a comportarci in un certo modo di fronte a certi stimoli e questi meccanismi di apprendimento agiscono in modo automatico, al di fuori della nostra consapevolezza. Le nostre stesse valutazioni personali degli eventi e delle cose subiscono l'effetto dell'apprendimento e una volta consolidatesi funzionano in modo relativamente autonomo. Gli schemi comportamentali e di pensiero hanno la funzione di farci risparmiare energia sia fisica che mentale, infatti si basano su esperienze pregresse già elaborate, facilmente rievocabili.

La risposta di stress si esplica in tre fasi; nella prima fase, definita fase di allarme, lo stressor suscita nell'organismo un senso di allerta, definito arousal (vedi glossario), con conseguente attivazione dei processi psicofisiologici (aumento del battito cardiaco, iperventilazione ecc.). Dopodiché, nella fase di resistenza, l'organismo tenta di adattarsi alla situazione e gli indici fisiologici tendono a normalizzarsi anche se lo sforzo attuato è molto intenso. Nel caso in cui l'adattamento non sia sufficiente si arriva alla terza fase, la fase dell'esaurimento, in cui l'organismo non riesce più a difendersi e la naturale capacità di adattamento viene a mancare.

Quest'ultima fase è la più pericolosa, in quanto l'esposizione prolungata ad una situazione di stress può provocare l'insorgenza di patologie sia fisiche che psichiche (vedi disturbi d'ansia). In particolare, lo stress cronico attiva un circuito composto da strutture cerebrali e da una ghiandola endocrina (asse ipotalamo-ipofisi-surrene), il surrene, il quale aumenta la secrezione di cortisolo. Quest'ormone, anche conosciuto come ormone dello stress, se presente in quantità superiori alla norma provoca vari disturbi (leggi anche stress e malattia).


Tra i sintomi più frequenti dello stress ricordiamo: frequente sensazione di stanchezza generale, accelerazione del battito cardiaco, difficoltà di concentrazione, attacchi di panico, crisi di pianto, depressione, frustrazione, attacchi di ansia, disturbi del sonno, dolori muscolari, ulcera dello stomaco, diarrea, crampi allo stomaco, colite, malfunzionamento della tiroide, facilità ad ammalarsi, difficoltà ad esprimersi e a trovare un vocabolo conosciuto, sensazione di noia nei confronti di ogni situazione, frequente bisogno di urinare, cambio della voce, iperattività, confusione mentale, irritabilità, abbassamento delle difese immunitarie, diabete, ipertensione, cefalea, ulcera.


A partire dalla metà del Novecento la psicosomatica si è imposta, come scopo principale, quello di individuare delle caratteristiche psicologiche specifiche che potessero essere considerate come veri e propri fattori di rischio nei confronti delle malattie. Da queste ricerche sono emersi dati molto interessanti su ciò che concerne il rapporto tra la personalità e la tolleranza allo stress; in particolare è stato possibile suddividere i comportamenti umani in due gruppi, definiti Tipo A e Tipo B (Friedman e Rosenman, 1959).

Gli individui appartenenti al Tipo A sono quelli più esposti allo stress, e presentano una maggiore probabilità di soffrire di qualche disturbo sia fisico che psichico dovuto alla pressione di eventi stressanti (leggi anche stress e malattia). Essi sono, per esempio, molto vulnerabili nei confronti delle malattie cardiovascolari (infarto, ictus, ipertensione etc.). Coloro che appartengono al Tipo B invece, manifestano una più elevata capacità di fronteggiare situazioni potenzialmente stressanti, rendendo di conseguenza minore il rischio di ammalarsi. La differenza tra le due tipologie non dipende tuttavia dal fatto di possedere due diverse e ben definite strutture di personalità, quanto al modo in cui viene organizzata la risposta a situazioni stressanti.

Comportamento di Tipo A

  • Competitività spinta e diffusa a tutti gli aspetti della vita. Tendenza alla sfida e alla lotta.
  • Aggressività (spesso repressa) presente costantemente in tutte le interazioni personali e sociali.
  • Impazienza, insofferenza per i diversi ritmi altrui e per l'insufficienza degli altri.
  • Tensione muscolare, discorso "esplosivo", iper vigilanza, difficoltà al rilassamento.
  • Tendenza a voler fare e ottenere un illimitato numero di cose in un limitato periodo di tempo.
  • Necessità spinta di avere costantemente il controllo totale nelle situazioni.
  • Spinta all'acquisizione di cose, oggetti, beni e in generale al consumo.
  • Spesso fumo, alcool, attività orali ripetitive.
  • Poca attività fisica.
  • Pochi interessi alternativi al lavoro.
  • Alimentazione irregolare ed eccessiva.

Comportamento di Tipo B

  • Competitività selettiva e proporzionata alla reale importanza degli obiettivi da raggiungere.
  • Aggressività "fisica" indotta da stimoli adeguatamente frustranti. Aggressività di base ridotta.
  • Capacità di adeguarsi e di tollerare la diversità degli altri ed i loro differenti ritmi.
  • Rilassamento muscolare, discorso tranquillo, vigilanza "fasica" facilità di rilassamento.
  • Tendenza a proporzionare le cose da fare e da ottenere in rapporto al tempo disponibile.
  • Ridotta importanza dell'avere costantemente il controllo in tutte le situazioni.
  • Relativa indifferenza al consumo e all'acquisizione di cose inutili.
  • Fumo e alcool molto limitati.
  • Attività fisica.
  • Interessi alternativi al lavoro.
  • Alimentazione controllata.

Le persone che posseggono le caratteristiche del Tipo A sono anche quelle che risentono in misura maggiore dello stress lavorativo. Infatti le pressioni lavorative, le scadenze, il sovraccarico, le difficoltà con i colleghi, le richieste lavorative a cui è difficile rispondere possono incidere profondamente sui modi con cui una persona percepisce e considera il proprio lavoro. Sentirsi sotto grave tensione costituisce un esito negativo, mentre sentirsi sfidati e in grado di rispondere a tali sfide rappresenta un risultato positivo. In altre parole, l'impatto degli stressors lavorativi e la risposta personale risultano modulati da come la persona stessa percepisce i fattori di stress.


Non è semplice giudicare il concreto impatto dello stress nelle situazioni lavorative, tuttavia alcune stime suggeriscono che circa la metà dei giorni lavorativi persi negli Stati Uniti per assenteismo risultano collegati a stati di stress (Elkin e Rosch, 1990). Le caratteristiche del lavoro che sono più facilmente associate con lo stato di stress sono:

  • Il rumore eccessivo, che rende molto più difficile la concentrazione e la comunicazione con i colleghi.
  • Il sovraccarico lavorativo. Un numero di ore lavorative superiore alle 40 ore settimanali.
  • La mancanza del tempo indispensabile per svolgere un compito. Dover quindi lavorare in fretta e in modo poco preciso.
  • La scarsa varietà delle attività. Svolgere sempre le stesse mansioni.
  • La monotonia delle attività svolte. Le attività vengono eseguite in modo meccanico e senza partecipazione.
  • L'insufficienza o la mancanza di un riconoscimento o di una ricompensa per una buona prestazione.
  • L'assenza di discrezionalità e di controllo. Quando non è possibile controllare in modo diretto i propri compiti e viene a mancare la possibilità di poterli svolgere nella maniera che si desidera.
  • La presenza di eccessive responsabilità.
  • L'ambiguità di ruolo. Mancanza di informazioni chiare a proposito delle condotte lavorative da adottare e imprevedibilità delle conseguenze delle proprie attività.
  • Il conflitto con i colleghi o con i superiori. Mancanza di accordo con i colleghi di lavoro circa le procedure lavorative e interferenze di ruolo.
  • L'insoddisfazione, la mancanza di realizzazione personale. Quando manca, per esempio, la certezza di un lavoro stabile o la possibilità di avanzamento professionale. Oppure non è possibile esprimere il proprio talento e le proprie capacità.
  • L'essere oggetto di pregiudizi, minacce, vessazioni. Queste situazioni portano a ciò che viene definito "mobbing".

Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni '70 dall'etologo Konrad Lorenz per descrivere un comportamento tipico di alcune specie animali che circondano un proprio simile e lo assalgono rumorosamente in gruppo al fine di allontanarlo dal branco.

Il mobbing sul posto di lavoro può essere di due tipi: il mobbing gerarchico e il mobbing ambientale; nel primo caso gli abusi sono perpetrati dai superiori della vittima, la quale viene destinata a mansioni umilianti, nel secondo caso invece sono i colleghi della vittima ad isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell'usuale dialogo e del rispetto.

La pratica del mobbing consiste nel vessare il collega di lavoro subordinato o il dipendente con svariati metodi di coercizione psicologica e fisica. Ad esempio, sottraendo lavoro gratificante per affidarlo ai colleghi; oppure attraverso la dequalificazione delle mansioni stesse che vengono ridotte a compiti banali quali fare caffè o fotocopie, o comunque a compiti molto operativi e con scarsa autonomia decisionale. Altra pratica diffusa è quella dei rimproveri e dei richiami, espressi in privato ed in pubblico, per errori normalmente trascurabili. Ancora, il mobbing si manifesta nel fornire volontariamente attrezzature di lavoro di scarsa qualità, computer e stampanti che si guastano, arredi scomodi, ambienti male illuminati; spesso si rende irreperibile anche l'assistenza tecnica. Se il dipendente resta in malattia, vengono inviate dai capi dell'azienda continue visite fiscali a casa del lavoratore. Quando la vittima ritorna sul posto di lavoro, spesso trova la scrivania sgombra o portata via e il computer scollegato dalla rete aziendale.

Un altro fenomeno che può colpire i lavoratori, in questo caso coloro che esercitano professioni di aiuto quali psicologi, psichiatri, assistenti sociali, infermieri etc, è il burnout. Il burnout si configura come uno stato di malessere, di disagio, che consegue ad una situazione lavorativa percepita come stressante e che conduce gli operatori a diventare apatici, cinici con i propri "clienti", indifferenti e distaccati dall'ambiente di lavoro. In casi estremi tale sindrome può comportare gravi danni psicopatologici (insonnia, problemi coniugali o familiari, incremento nell'uso di alcol o farmaci) e deteriora la qualità delle cure o del servizio prestato dagli operatori, provocando assenteismo e alto turnover.