Stress lavoro correlato

Stress lavoro correlato e benessere organizzativo

Autori: Luca Pietrantoni - Gabriele Prati - Andrea Morelli - NUOVE TENDENZE DELLA PSICOLOGIA Vol. 1, n. 3, dicembre 2003 - Edizioni Erickson – Trento

Il lavoro in Polizia è riconosciuto in letteratura come altamente stressante. Basti pensare che, fin dai primi anni Ottanta, Spielberger aveva ideato uno strumento volto proprio a misurare lo stress nelle forze di Polizia chiamato Police Stress Survey (Spielberger et al., 1980). In Europa, negli Stati Uniti e in Australia sono state effettuate numerose ricerche al fine di indagare i molteplici aspetti del benessere, della qualità della vita lavorativa e della salute mentale dei poliziotti (Anshel, Robertson e Caputi, 1997; Dick, 2000; Mayhew, 2001; McNeill, 1996).

Quando si vogliono comprendere gli effetti della vita lavorativa sul benessere psicologico e sull’adattamento psicologico di un agente di Polizia, così come per altri ambiti professionali, è opportuno prendere in considerazione la molteplicità delle dimensioni negli aspetti positivi e negativi.

L’immagine stereotipata del poliziotto come individuo che svolge un lavoro pericoloso e stressante deve essere rivista tenendo in considerazione quanto questo possa essere soddisfacente e appagante. Kop, Euwema e Schaufeli (1999) hanno indagato gli aspetti positivi e negativi del lavoro in Polizia nella percezione dei poliziotti stessi. Gli aspetti positivi più citati risultano il contatto con i cittadini e il fatto di lavorare fra le persone, la percezione di aiuto e utilità per la società, la cooperazione con i colleghi, la libertà/responsabilità.

In una ricerca precedente molto simile di Storch e Panzarella (1996), gli aspetti positivi più menzionati risultano in primis l’eccitamento e la sfida connessi all’essere poliziotto, seguiti dalle dichiarazioni relative all’aiuto alle persone e dalla sicurezza del posto di lavoro. Se però si combinano fattori come la sicurezza del lavoro con il salario, indennità, e disposizioni di pensionamento, questo pacchetto di fattori compensativi risulta essere il più attraente. Gli aspetti negativi menzionati risultano nell’ordine: orario di lavoro inadeguato, biasimo pubblico (condanna pubblica della Polizia, stereotipi negativi, sfiducia e disapprovazione dei cittadini nei loro confronti), paga inadeguata, rapporti difficili con gli amministratori, i politici o gli avvocati.

In generale, da queste ricerche si evince un quadro più complesso: le stesse caratteristiche possono essere percepite come soddisfacenti o insoddisfacenti a seconda dei casi e anche gli eventi drammatici tipici del lavoro del poliziotto, quando accadono, possono essere esperiti come eustress da quegli agenti che amano l’eccitamento connesso al loro lavoro.

GRUPPO PIÙ ESPOSTO?

È difficile trovare in letteratura una risposta certa al quesito se gli agenti di Polizia costituiscano o meno una categoria a rischio per la salute sia fisica che mentale. Una parte della letteratura sostiene che gli agenti di Polizia siano una categoria a rischio di stress lavorativo, le cui conseguenze sono ravvisabili negli alti tassi di divorzio, alcolismo, problemi di salute e suicidio (Mayhew, 2001; Storch e Panzarella, 1996). È indubbio che gli agenti di Polizia siano esposti a eventi traumatici o stressanti nello svolgimento del loro lavoro. Le esperienze traumatiche vissute sul lavoro possono causare danni psicologici e portare allo sviluppo di Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSPT). Sugimoto e Oltjenenbruns (2001) parlano di una reazione di shock psicologico agli stressor traumatici (direttamente legati alla morte) chiamata «angoscia traumatica» che può divenire patologica e irrisolta e scatenare quindi un DSPT cronico. Nel lavoro di Polizia, gli agenti possono essere esposti al cosiddetto stress traumatico secondario (STS), definito come la naturale risposta comportamentale ed emozionale che si verifica in seguito alla conoscenza di un evento traumatico accaduto a un altro significativo o lo stress dovuto all’aiuto o al tentativo di aiuto nei confronti di persone traumatizzate o sofferenti (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999). Sugimoto e Oltjenenbruns (2001) puntualizzano che, se si è esposti direttamente a un evento (ad esempio un poliziotto assiste a una sparatoria in cui muore una persona), si dovrebbe parlare di DSPT, mentre se, ad esempio, un agente comunica la morte di una persona a un familiare ed empatizza con la perdita sarebbe più opportuno parlare di STS.

Stephens et al. (1997) sostengono che la prevalenza di poliziotti neozelandesi che riportano sintomi di DSPT è uguale alla media di un gruppo di cittadini esposto a un evento traumatico. Mann e Neece (1990), invece, riportano una stima generale dei poliziotti che esibiscono sintomi del DSPT che si aggira attorno al 12-35%. Harvey Lintz e Tidwell (1997) hanno rilevato che la percentuale di poliziotti che riportano sintomi di DSPT diciassette mesi dopo essere intervenuti in un grave disordine sociale si aggira intorno al 17%. In uno studio di Brown et al. (1999) il 40% del campione di poliziotti supera il valore soglia del General Health Questionnaire, indicando la possibilità che questa categoria di lavoratori soffra fortemente di distress rispetto alla media della popolazione. Leonard e Alison (1999) sostengono che i sintomi di stress in seguito all’esposizione a situazioni traumatiche possono continuare per lungo tempo e includono senso di colpa, ansia, depressione, disturbi del sonno, pensieri intrusivi, compromissione delle abilità di coping, rabbia. In particolare la rabbia, secondo gli autori, è associata all’ostilità, al coinvolgimento in azioni violente e a una maggiore propensione all’uso di armi.

Contrariamente a questi risultati, un altro filone di ricerche mostra un quadro diverso. Storch e Panzarella (1996) ed Evans et al. (1993) hanno trovato che il livello di ansia di tratto misurato negli agenti di Polizia è leggermente minore rispetto al livello medio della popolazione. I ricercatori riconoscono che questi eventi drammatici e altamente stressanti sono l’eccezione piuttosto che la regola. Richmond et al. (1998) trovano che il tasso di sintomi percepiti di stress risulta essere nella ricerca compreso fra il 12 e il 15% e non emergono grandi differenze con la popolazione generale.

 


IL BURNOUT

Il termine burnout indica una condizione disfunzionale tipica delle professioni di aiuto caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione (intesa come atteggiamento distante e spersonalizzato con i propri utenti) e ridotta realizzazione professionale. Negli ultimi trent’anni sono stati realizzati numerosi studi sul burnout in gruppi lavorativi quali insegnanti, infermieri, medici e operatori sociali, mentre la categoria dei poliziotti è stata indagata raramente. Tuttavia il lavoro di Polizia non può essere semplicemente classificato come helping profession: se gli operatori sociali e sanitari hanno come focus di attenzione l’essere umano nelle varie sfaccettature dei suoi bisogni, il poliziotto centra il suo lavoro sulla lex e sul conseguente principio di autorità che ne discende. Ciò rende la sua identità personale e sociale più complessa e articolata.

Kop, Euwema e Schaufeli (1999) riportano ricerche da cui si evince che l’esaurimento emozionale e la depersonalizzazione (due dimensioni del burnout) sono fortemente correlati a un diminuito benessere e a un maggiore atteggiamento cinico nei confronti dei cittadini e della direzione. Nella loro ricerca gli autori trovano che poliziotti con una certa esperienza di lavoro (circa 16-25 anni) ottengono alti punteggi nelle dimensioni dell’esaurimento emozionale e della depersonalizzazione. Inoltre essi non riscontrano differenze significative fra il livello di burnout misurato negli agenti di Polizia e quello ravvisato in altri lavoratori «a rischio» (infermieri, medici, operatori sociali, insegnanti). Gli autori provano a fornire una triplice spiegazione di questo fenomeno. La prima riguarda il fatto che il lavoro in Polizia non è così stressante come spesso viene immaginato dall’opinione pubblica: in confronto con le altre professioni gli agenti di Polizia hanno tempi maggiori per recuperare in seguito a eventi stressanti e il lavoro in Polizia comprende anche lavoro d’ufficio e non c’è sempre un contatto diretto con le persone.

La seconda si riferisce all’effetto selezione: i poliziotti vengono selezionati in base alla resistenza allo stress. I poliziotti non sono quindi più a rischio di disagio da stress degli altri, dato che sono scelti tra chi è più predisposto a gestire efficacemente le situazioni difficili. La terza riguarda la cultura in Polizia, spesso descritta attraverso norme che valorizzano la conformità al ruolo di genere maschile, e quindi incoraggia l’occultamento di problemi emozionali. In questo caso, questa mancata differenza tra poliziotti e altre categorie lavorative sarebbe dovuta alle risposte falsate ai questionari date dai poliziotti che non vogliono ammettere i propri problemi emotivi. Nello stesso lavoro i ricercatori, inoltre, trovano una relazione fra burnout e uso della violenza. Le condotte violente sono più probabili tra i poliziotti che hanno sviluppato atteggiamenti cinici e distaccati nei confronti dei cittadini. Contrariamente alle attese, la dimensione dell’esaurimento emozionale risulta negativamente correlata all’uso della violenza: l’esaurimento emozionale si traduce in un minore livello di attività, un maggiore evitamento della gente e, quindi, una minore probabilità di comportamenti violenti.

Kop, Euwema e Schaufeli (1999) ritengono che il burnout derivi da una mancanza di reciprocità esperita nelle relazioni sociali di scambio, a un livello sia interpersonale che organizzativo. La mancanza di reciprocità si sperimenta nel momento i cui le energie investite non sono proporzionali alle ricompense ottenute in cambio. La loro ricerca, infatti, conferma questo punto di vista trovando un’associazione fra mancanza di reciprocità nei confronti dei cittadini, dei colleghi e dell’organizzazione e le tre variabili del burnout.

Secondo Mayhew (2001) il burnout può avere molte conseguenze negative nella vita di un poliziotto, quali dimissioni, depressione, divorzio e anche suicidio. L’autrice sostiene che gli indicatori del burnout di un poliziotto comprendono: assenteismo, irritabilità, difficoltà nella concentrazione, insonnia, senso di fatica generalizzato e un insieme di sintomi psicosomatici.

 


IL SUICIDIO

Per quanto riguarda il tasso di suicidio tra i poliziotti, i dati sono controversi (Hem et al., 2001). In Italia, Cuomo e Mantineo (2001) riportano uno studio comparativo tra la popolazione generale e il personale della Polizia di Stato relativo ai casi di suicidio verificatisi dal 1995 al 2001, che ha consentito di rilevare nel nostro campione un’oscillazione di poco inferiore (nel 1995) e di poco superiore (nel 1997) ai valori della media nazionale.

L’analisi di 77 casi di suicidio rivela che nel 90% dei casi il mezzo utilizzato per l’autosoppressione è la pistola di ordinanza che, come è facilmente comprensibile, rappresenta un importante e immediato strumento distruttivo, per di più ricco di significati non solamente negativi ma anche espressivi non solo di patologica esaltazione eroica in un momento in cui domina la sofferenza, ma anche di frustrazione, di solitudine. In particolare si è evidenziato come, alla base di tali episodi drammatici, si possano rintracciare diverse cause: il rapporto continuo con la violenza, la sofferenza e la morte, la convivenza forzata con i colleghi, il senso di solitudine successivo all’allontanamento forzato dall’ambiente abituale, con conseguente perdita delle proprie sicurezze, ma anche cause esterne alla sfera professionale come le delusioni sentimentali. In Italia nell’anno 2003 sono stati registrati una decina di casi di poliziotti che hanno commesso omicidio (intrafamiliare) oppure suicidio.

In altri Paesi europei come la Germania uno studio di Schmidtke et al. (1999) rileva che il tasso di suicidio tra i poliziotti è leggermente più alto di quello riscontrato nella popolazione generale (25 per 100.000 vs 20 per 100.000). Anche in questo caso, nella maggioranza dei casi il mezzo utilizzato è l’arma da fuoco.

Il suicidio di un poliziotto può avere conseguenze pesanti dal punto di vista psicologico nei colleghi e nei superiori che lo conoscevano. Loo (2001) ha messo in evidenza come in caso di suicidio di un poliziotto sarebbe opportuno mettere in atto un’azione di «postvenzione» (intendendo con questa espressione un intervento di prevenzione terziaria), al fine di fornire supporto emotivo ai colleghi e ai conoscenti del suicida.

 


LE FONTI DI STRESS

Le fonti di stress nel lavoro di Polizia dipendono molto dalla sezione di assegnamento (Patterson, 2001; Lucchetti, 2003). Ciò suggerisce il fatto che le forze dell’ordine eseguono compiti in situazioni altamente differenziate. Brown et al. (1999), ad esempio, riportano che agenti che si occupano del traffico (e di conseguenza degli incidenti stradali) sono più vulnerabili allo stress rispetto agli altri colleghi. Patterson (1997) inoltre rileva che lavorare come agente infiltrato comporta conseguenze specifiche fra cui: senso di fatica cronica, incubi e successivi conflitti sul lavoro, difficoltà nelle relazioni e anche la probabilità di gravi esiti dal punto di vista psicologico.

Pertanto in questa sezione si elencheranno gli stressor più diffusi, tenendo presente che si tenterà di delineare solo una panoramica generale. Patterson (2001) individua quattro grandi categorie di stressor nella vita di un poliziotto:

1. Eventi stressanti esterni all’organizzazione burocratica della Polizia, ad esempio il lavoro svolto dal sistema giudiziario, l’indulgenza nei confronti dei criminali, la cattiva immagine sociale della Polizia.

2. Eventi stressanti interni connessi alla burocrazia e alle procedure all’interno dell’organizzazione della Polizia. Esempi riguardano la mancanza di supporto, di un adeguato training, equipaggiamento e/o supervisione, una bassa paga oppure eventi legati all’organizzazione come la mancanza di comunicazione, inadeguate opportunità di carriera, lavoro in turni e impossibilità di passare ad altre sezioni.

3. Eventi stressanti legati alla mansione. Alcuni esempi includono lavoro organizzato in turni, conflitti di ruolo, sovraccarico di lavoro.

4. Eventi stressanti individuali non legati all’ambiente lavorativo. Esempi sono il divorzio o altri problemi di salute propri o dei familiari.

Tuttavia, l’approccio più comune in letteratura individua due grandi categorie di stressor lavorativi in Polizia (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999; Patterson 2001):

1. Stressor legati al contenuto del lavoro (Job content): è il campo di lavoro vero e proprio: lavoro di routine eccessivo o noioso, situazioni impegnative dal punto di vista emozionale come informare i parenti del deceduto, l’avere a che fare con incidenti, abusi e violenze, l’affrontare lo sconosciuto, il pericolo e la violenza.

2. Stressor legati al contesto del lavoro (Job context): riguarda il contesto organizzativo, dirigenziale e burocratico: mancanza di comunicazione, limitate possibilità di carriera, mancanza di supporto, stile di direzione, presenza di supervisori disinteressati, relazioni distaccate, cultura e colleghi di lavoro.

Kop, Euwema e Schaufeli (1999) aggiungono a queste due grandi categorie di stressor una terza chiamata scarsa efficacia della Polizia, la quale include: mancanza di soluzioni strutturali e trattamento dei sintomi piuttosto che delle cause, atteggiamenti negativi dei cittadini nei confronti dei poliziotti, inadeguata punizione dei crimini, autorità limitata dei poliziotti.

Brown et al. (1999) distinguono tre tipi di stressor sulla base della frequenza dell’impatto emotivo: gli eventi traumatici (bassa frequenza e alto impatto: morte e disastri), gli eventi stressanti di routine (alta frequenza e basso impatto: controlli, negoziazioni, piccoli scontri), e gli eventi stressanti «vicari» (di media frequenza e medio impatto rispetto ai precedenti: crimini sessuali). Anshel et al. (1997) insistono sul fatto che in letteratura non si è prestata sufficiente attenzione alla distinzione fra stressor cronici e stressor acuti. Gli stressor acuti sono eventi improvvisi, di durata relativamente breve, i quali provocano una quasi immediata reazione psicologica. Nel lavoro in Polizia questi stressor sono particolarmente frequenti e includono l’affrontare situazioni impreviste, l’avere a che fare con persone violente, l’assistere a scene di morte improvvisa (Anshel et al., 1997; Brown et al., 1999), di incidenti mortali o lesivi.

Le ricerche raramente fanno riferimento alle specifiche attività svolte dai poliziotti, e forse già questo può spiegare molta della contraddittorietà presente in numerosi lavori scientifici. Almeno per quanto riguarda la realtà italiana non si può omologare un operatore di Polizia che svolge sistematicamente attività investigativa con uno che effettua altrettanto stabilmente servizio di Polizia stradale o di volante o di ordine pubblico all’interno di un reparto inquadrato. Questo perché, sulla base di un’identità comune, ciascuno si confronta quotidianamente con i problemi di competenza subendo e affrontando le diverse tipologie di stressor attraverso modalità, in parte mutuate culturalmente all’interno del proprio specifico ambiente di lavoro e, in parte, apprese attraverso l’esperienza personale.

Nelle successive sezioni analizziamo in dettaglio gli eventi stressanti del lavoro di Polizia secondo la classificazione sopra presentata.

 


STRESSOR LEGATI AL CONTENUTO DEL LAVORO

Violanti e Paton (1999) descrivono gli agenti di Polizia come una sorta di soldati della guerriglia quotidiana che si svolge nelle nostre città, dove i nemici sono spesso difficili da riconoscere e gli attacchi sono inaspettati. Il poliziotto deve tenersi pronto a lottare in ogni momento [...] percependo un continuo senso di pericolo proveniente da un nemico sconosciuto [...]. Mentre il soldato si trovava in guerra per un periodo non inferiore ai nove mesi, il poliziotto alterna la violenza della strada (ad es. sparatorie, vedendo morti e trattando con bambini abusati) alla normalità quotidiana della vita civile. (Violanti e Paton, 1999, p. 5). In questa «battaglia civile», l’ambiente del lavoro in Polizia è denso di morte: la presenza e l’utilizzo di armi, la richiesta di sacrificio da parte della società, lo sviluppo (durante l’addestramento e durante il servizio) di una credenza secondo la quale la minaccia, il danno o la morte sono onnipresenti. Secondo gli studiosi (Mayhew, 2001; Patterson, 2001), gli eventi critici nel lavoro di Polizia potenzialmente in grado di scatenare DSPT possono essere i seguenti:

  • AGGRESSIONE SUBITA. Mayhew (2001) riporta le seguenti caratteristiche comuni nelle aggressioni a danno dei poliziotti durante il servizio: avvengono durante arresti, imprigionamenti o facendo la scorta, le ferite riguardano la testa, le braccia, il tronco o il viso. Un minore tempo di servizio, un minore livello di istruzione e di grado sono correlati a un rischio maggiore. Ciò è dovuto probabilmente a tre ragioni: i poliziotti con esperienza sono promossi supervisori, ai poliziotti più giovani vengono con più frequenza assegnati compiti più a rischio, i poliziotti con minore anzianità di servizio sono meno abili nel riconoscere segnali di pericolo e situazioni a rischio. Mayhew (2001) rileva che le seguenti caratteristiche comuni agli assalitori dei poliziotti sono simili in tutti i Paesi occidentali: sesso maschile, età compresa fra i 15 e i 29 anni, alcolista o tossicodipendente, disoccupato o lavoratore in un’occupazione a basso status, precedenti penali, provenienza da un ambiente familiare violento.
  • UCCISIONE E FERIMENTO DI TERZI. Un’ampia letteratura in merito sostiene la teoria della percezione del pericolo: l’uso della forza da parte della Polizia dipende dalla contingente esperienza (percepita o reale) del pericolo. MacDonald et al. (2001) modificano questa teoria dimostrando che l’uccisione di civili da parte degli agenti è funzione della violenza percepita nella società: il loro modello assume che ci sia una forte relazione temporale fra alcuni tipi di omicidi criminali (in particolare omicidi legati alle rapine e alle aggressioni a civili rispetto a omicidi passionali) e l’uccisione di civili da parte della Polizia. Le vittime degli omicidi causati dai poliziotti sono tendenzialmente persone di basso status sociale e ciò sembra dovuto sia al bias che associa le minoranze alla violenza sia al fatto che le minoranze sono in realtà maggiormente coinvolte in attività criminose. Il «suicidio attraverso un poliziotto» (suicide by cop) è un incidente che avviene nel momento in cui un individuo con intenzioni suicide manipola la situazione in modo che possa essere ucciso dai poliziotti. Studi nordamericani dimostrerebbero che, nel contesto statunitense, questo fenomeno avrebbe proporzioni non trascurabili con un conseguente impatto psicologico sul poliziotto.
  • SITUAZIONI A RISCHIO DI MORTE. Southwick (1998) compie un’analisi statistica sul rischio di omicidio e morte accidentale nel lavoro in Polizia raccogliendo dati riguardanti il periodo compreso fra l’inizio degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Novanta. I risultati ci dicono che il lavoro del poliziotto era ad alto rischio di omicidio nei primi anni considerati in questo studio, ma che poi il rischio è andato progressivamente decrescendo fino a diventare inferiore alla popolazione generale. Il rischio di omicidio aumenta, secondo Mayhew (2001), compiendo operazioni quali lavoro in incognito, conducendo arresti, compiendo irruzioni in operazioni antidroga, intervenendo in liti domestiche o inseguendo automobilisti a forte velocità. Sono invece più rari gli spari non intenzionali maneggiando le armi da fuoco. La ricercatrice sottolinea tre comuni caratteristiche di questi omicidi: la maggior parte degli assassini ha disturbi di personalità, i poliziotti vittime utilizzano la forza come ultima risorsa e gli omicidi sono spesso preceduti da errori nelle procedure stabilite. Comunque sembra che il numero degli omicidi rimanga relativamente costante nonostante i crescenti livelli di disponibilità di armi da fuoco e droghe. Ciò potrebbe essere dovuto a un maggiore addestramento, alle tecnologie mediche e alle più sofisticate protezioni per il corpo.
  • IL SUICIDIO DI UN COLLEGA. Loo (2001) riporta che le reazioni dei colleghi alla notizia del suicidio di un collega poliziotto comprendono un mix di tutti quei sintomi che comunemente coinvolgono le persone vicine a un suicida: shock alla notizia, angoscia, sentimenti di impotenza, depressione, abbandono, solitudine, sensi di colpa per non aver saputo prevenire la morte, pensieri di suicidio (effetto contagio), abuso d’alcol e di droghe, alterazione nell’assunzione di cibo e nel sonno, disfunzioni sessuali, rabbia nei confronti del suicida, del dipartimento di Polizia, degli altri colleghi o dei media, assenteismo, perdita di interesse nel lavoro, famiglia e altri campi.
  • MALATTIE TRASMISSIBILI. Mayhew (2001) riporta che le aggressioni sopra citate possono produrre oltre che ferite anche infezioni, fra cui le più comuni sono epatite B o infezione da HIV (anche se in quest’ultimo caso la percezione del rischio supera di molto la probabilità). Secondo la ricercatrice un tipo di lavoro ad alto rischio di contagio è la perquisizione di persone tossicodipendenti, le quali possono utilizzare aghi nascosti oppure ricorrere a morsi, sputi o vomito. La ricercatrice, inoltre, cita un’indagine effettuata in Australia nel periodo fra il 1981 e il 1991 in cui si sono identificati 7 casi di AIDS e 31 di epatite B trasmessi durante il servizio.
  • SEQUESTRI, PRESA DI OSTAGGI E BARRICAMENTI. Feldmann (1998) asserisce che queste situazioni sono molto stressanti e ad alto rischio di decesso. Egli suggerisce che un buon addestramento nella scelta di una soluzione praticabile e sicura è necessario in caso di fallimento per evitare un impatto negativo sul proprio senso di competenza, sentimenti di colpa e inadeguatezza, o identificazioni con coloro con cui sono avvenuti i negoziati.
  • INTERVENTI IN STUPRI, VIOLENZE E ABUSI. Questi eventi richiedono un intervento più «clinico» e sono a forte rischio di stress traumatico secondario. Le agenti di Polizia di sesso femminile sono le più esposte a questi eventi. Altri eventi come gli attacchi terroristici, i disastri naturali o provocati, i gravi incidenti stradali possono innescare sul momento un’angoscia traumatica e/o una reazione di stress acuto che, nel lungo termine, può evolvere nel DSPT.

 

STRESSOR LEGATI AL CONTESTO DEL LAVORO

Una parte della letteratura sostiene la tesi secondo la quale gli effetti degli stressor legati all’aspetto organizzativo e amministrativo del lavoro sono maggiori rispetto a quelli degli stressor legati alle mansioni lavorative. Storch e Panzarella (1996) riportano che l’assunzione comune che i poliziotti soffrano di stress a causa delle difficoltà incontrate sul lavoro (violenze, sparatorie, ecc.) sia una credenza non corrispondente alla realtà poiché le ricerche empiriche dimostrano il contrario. I ricercatori spiegano che, nonostante i questionari citino fattori lavorativi come affrontare il pericolo, la violenza o la miseria umana, gli agenti di Polizia raramente menzionano questi come cause di stress. I fattori riportati come più stressanti, invece, risultano essere variabili organizzative come le condizioni di lavoro, i rapporti con i superiori e le relazioni con l’ambiente esterno alla Polizia (cittadini, sistema legale). Alexander et al. (1993), allo stesso modo, riportano che i più alti livelli di stress sono raggiunti a causa di fattori organizzativi: carenza di personale, risorse inadeguate, pressioni di tempo o mancanza di tempo per elaborare un evento traumatico, sovraccarico di lavoro, mancanza di comunicazione. Di seguito si analizzano alcune di queste condizioni stressanti legate al contesto lavorativo.

  • I TURNI. Gli agenti di Polizia prestano un servizio che copre l’intero arco della giornata. Il lavoro a turni risulta in letteratura uno stressor notevole in quanto disturba il normale ritmo circadiano e la qualità/quantità di sonno (McNeill, 1996). Va segnalato comunque che in letteratura emerge il fatto che il lavoro a turni può portare a disturbi gastrointestinali, psicosomatici, aumento di peso, senso cronico di fatica e altri gravi disturbi a lungo termine come quelli coronarici (Patterson, 1997; Violanti e Paton, 1999). Il lavoro notturno, inoltre, provoca disturbi del ritmo circadiano e ciò si manifesta in una minore abilità nel momento più basso dal punto di vista biologico: tra le 2:00 e le 4:00 di notte (Patterson, 1997). Abbiamo deciso di relegare il fattore «lavoro a turni» nel job context anziché nel job content, proprio perché ciò che si rivela stressante sembra essere il modo in cui vengono gestiti i turni piuttosto che i turni in se stessi. McNeill (1996) riporta che il campione di agenti di Polizia coinvolti nella ricerca non ritiene che il lavorare a turni sia problematico se i turni sono organizzati in modo da poter praticare attività sportive e avere una vita sociale soddisfacente. Allo stesso modo Storch e Panzarella (1996) riportano che le maggiori lamentele sui turni di lavoro riguardano la loro gestione monopolizzata dai colleghi più anziani; il turno notturno è il più ambito in quanto ci sono minori richieste di intervento e una minore presenza della direzione.
  • SOSTEGNO SOCIALE INADEGUATO. In letteratura viene indicato come uno degli stressor più presenti a livello organizzativo la mancanza di supporto da parte dei superiori (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999; Mayew 2001; Patterson, 2001). Brown et al. (1999) rilevano che il supporto sociale nelle forze di Polizia ha un ruolo di mediazione nel diminuire la probabilità di sviluppare malessere, anche se il peso è limitato. Stephens e Long (2000) trovano che il tipo di comunicazione fra i pari e con i supervisori può essere un fattore di protezione nei confronti dello stress, e un buon predittore della salute fisica e mentale. Inoltre Stephens et al. (1997) riportano che la presenza di sintomi del DSPT è negativamente correlata al supporto sociale. Il supporto dei pari (che include la possibilità di parlare dei traumi esperiti), in particolare, mostra il più forte impatto sui sintomi del DSPT; la forza dell’impatto risulta più forte di quella del trauma stesso. La comunicazione e l’interazione sociale d’altronde non si collocano nel continuum del supporto ma, se sono negative, diventano a loro volta stressor che amplificano i sintomi del DSPT.
  • NORME SULL’ESPRESSIONE EMOTIVA. La cultura informale nella Polizia scoraggia la libera espressione dei sentimenti. Mostrare distacco e controllo nei confronti delle proprie emozioni è una componente importante dell’identità del poliziotto e costituisce anche un’aspettativa sociale molto diffusa nei loro confronti; inoltre si riporta come l’autorità esercitata dal poliziotto dipenda dal suo controllo sulle emozioni (Dick, 2000). Harvey Lintz e Tidwell (1997) asseriscono che i cittadini si aspettano che gli agenti di Polizia si comportino in modo stereotipato, mostrandosi forti nei confronti di situazioni difficili, non manifestando i propri sentimenti. Sembrerebbe tuttavia che, tra i poliziotti, la tendenza a inibire le emozioni non sia associata di per sé alla probabilità di soffrire maggiore distress, nonostante la letteratura sembri dimostrare il contrario. A questo proposito, è utile considerare che le emozioni non sono solamente dei fenomeni intrapsichici ma sono costruzioni sociali in quanto sono situate nel mondo sociale, il quale permette ciò che è definibile ed esprimibile attraverso le risorse culturali e linguistiche. Howard et al. (2000) hanno effettuato una ricerca sull’espressione delle emozioni all’interno del personale delle forze di Polizia: da una parte gli agenti di Polizia riconoscono che le emozioni richiedono di essere espresse per poter essere vissute in modo salutare, dall’altra rilevano che l’espressione delle emozioni può compromettere la performance lavorativa e la fermezza necessaria per esercitare le mansioni operative. Quindi le emozioni vengono accettate e nello stesso tempo vengono evitate e negate in quanto pericolose per il lavoro. Gli autori suggeriscono che entrambe le costruzioni sono impiegate funzionalmente dagli agenti per mantenere una competenza sia professionale che culturale. L’utilizzo dell’una o dell’altra prospettiva viene effettuato dai poliziotti in base alle aspettative sociali contingenti. Sugimoto e Oltjenenbruns (2001) parlano, inoltre, di tendenza alla chiusura nei confronti di professionisti della salute mentale e di paura ad ammettere problematiche psicologiche fra gli agenti di Polizia. Alcuni rifiutano il debriefing in seguito a interventi critici, per paura di essere considerati negativamente dai colleghi.
  • CLIMA «DI GENERE». La cultura informale delle forze dell’ordine è stata descritta come connotata da un «bias mascolino», nel quale sono valorizzati competenza, competizione, autoritarismo e abilità direttive. Il poliziotto è descritto come duro, distaccato, difensore della logica della giustizia, autonomo, oggettivo e la professione del poliziotto è considerata un lavoro che può essere svolto solo da un «uomo armato che combatte il crimine e i criminali». Alcune ricerche hanno indagato il processo di adattamento delle agenti di sesso femminile a una professione a maggioranza maschile. Secondo McNeill (1996), le agenti di Polizia si mostrerebbero più atipiche rispetto al ruolo tipicamente femminile, accettando una sorta di pseudo mascolinità nel tentativo di guadagnare accettazione e stima. Brown et al. (1999) citano ricerche in cui risulta che gli operatori della Polizia di sesso femminile soffrono di un numero di sintomi di DSPT maggiore rispetto ai colleghi di sesso maschile. D’altra parte, però, nella loro ricerca trovano che alle agenti di sesso femminile viene chiesto con più frequenza di occuparsi di stressor vicari (violenze e abusi sessuali), incrementando in questo modo la probabilità di soffrire di disturbi psicologici. Questo fattore è a sua volta spiegato tenendo presente che nelle donne vi è una maggiore sensibilità per questo tipo di crimini e che esse riescono a instaurare un rapporto maggiormente empatico con le vittime. Nella distribuzione dei compiti, alle donne agenti sono più spesso affidate questioni concernenti abusi, violenze, prostituzione, fughe o ritrovamenti di bambini. Infine, alcuni hanno sottolineato come l’ambiente di lavoro possa essere molto stressante per agenti omosessuali a causa dell’omofobia di colleghi o superiori (Burkhe, 1996).

 

LA COMPLESSITÀ DELLA RELAZIONE STRESSOR-DISTRESS

Per quanto detto finora possiamo affermare con certezza che il lavoro in Polizia, come parte del ruolo professionale, espone l’agente a situazioni ed eventi stressanti, che possono riflettersi in modo negativo sulla vita stessa dei poliziotti, influenzando il loro stile di vita fino a provocare veri e propri disturbi psicologici. Il legame fra stressor e distress non è naturalmente meccanico: nonostante i sintomi del DSPT fra gli agenti di Polizia siano fortemente correlati all’esposizione a eventi altamente stressanti, ci sono studi che non trovano conseguenze di tipo psicologico in persone che hanno fornito soccorso in seguito a disastri (Brown et al., 1999). A questo proposito possiamo accennare ad Alexander et al. (1993), i quali riportano che, nel disastro dell’impianto di trivellazione Piper Alpha del 1988 nel Mare del Nord nel quale morirono 167 uomini, i poliziotti scozzesi coinvolti nella raccolta dei corpi non hanno riportato — sorprendentemente — conseguenze psicologiche gravi. Carlier, Lamberts e Gersons (2000) menzionano un altro esempio: comunemente in Polizia due agenti sono esposti allo stesso evento e uno solo sviluppa i sintomi del DSPT. Ciò significa che la reazione traumatica è determinata sia da fattori oggettivi, come la severità dell’evento, sia da fattori soggettivi, come le differenze individuali, il significato attribuito all’evento e le strategie di coping. È di centrale importanza la percezione dello stressor e il significato che viene ad assumere. In questo modo, una stessa richiesta nel lavoro assume significati differenti per persone diverse e la presenza di uno stressor lavorativo non ha lo stesso effetto su più persone. Altrettanto importanti sono le capacità individuali di coping, risorse individuali utilizzate per affrontare eventi e situazioni che mettono alla prova il proprio benessere psicosociale. Le modalità per affrontare un evento stressante possono portare l’individuo da una risposta negativa a una fonte di crescita e di sviluppo personale.

Violanti e Paton (1999) sostengono infatti che lo stress legato al trauma è un complesso prodotto dell’interazione di ambiente, situazione, persona, meccanismi di supporto e interventi. In base a questo modello biopsico-sociale, agendo sui fattori intervenienti, si può arrivare anche a una buona elaborazione dell’evento stressante, in modo che non produca effetti negativi ma diventi, al contrario, un’occasione di crescita per l’individuo.

Fattori individuali

I fattori individuali sono di grande importanza nell’interazione con gli stressor, come già affermato precedentemente. In generale all’interno delle forze dell’ordine i rischi connessi al lavoro e il livello di stress decrescono con il progredire dell’età e dell’anzianità di servizio (Mayhew, 2001; Storch e Panzanella, 1996). Questo risultato è dovuto sia a una maggiore esperienza e abilità nel lavoro sia al raggiungimento di migliori posizioni lavorative. Violanti (2001) sottolinea il fatto che fattori individuali come l’hardiness, definito come l’abilità di affrontare con coraggio condizioni difficili, la vulnerabilità, definita come la forza che comprime lo stressor sull’individuo, la resilienza, definita come la capacità di recuperare dopo un evento negativo e di ritrovare un veloce equilibrio attraverso il coping, possano influenzare il modo in cui vengono vissuti e interpretati gli stressor. Se gli stressor vengono adeguatamente affrontati possono costituire esperienze di crescita e sviluppo personale.

Le strutture cognitive personali assumono un’importanza fondamentale nell’elaborazione del trauma. Carlier, Lamberts e Gersons (2000) riportano in uno studio che ciò che differenzia un gruppo di agenti di Polizia con DSPT rispetto a uno non-DSPT è lo schema di sé, in particolare l’illusione di invulnerabilità e la sicurezza del potersi difendersi da un pericolo e da una minaccia fisica percepita. Gli schemi cognitivi posseduti possono essere violati dall’esperienza del trauma e questa violazione può causare molte difficoltà psicologiche che interferiscono con il processo di coping. Pertanto i poliziotti con schemi di sé che idealizzano l’invulnerabilità e l’integrità personale una volta esposti al trauma che distrugge questa illusione sono più propensi a sviluppare disturbi psicologici. Mearns e Mauch (1998) dimostrano che un fattore di protezione di grande importanza nello stress lavorativo in Polizia è l’aspettativa sulla regolazione dell’umore negativo. In altre parole, ci sono poliziotti che sono più convinti della loro capacità di lenire i propri stati d’animo negativi e altri, invece, che non sono convinti di ciò. L’aspettativa sulla regolazione dell’umore predice l’utilizzo di strategie di coping adattive e comporta una più bassa incidenza di conseguenze dello stress lavorativo come l’ansia, la depressione, i problemi fisici e l’abuso di alcol. Infine, anche l’autostima risulta essere un fattore di protezione nei confronti degli stressor lavorativi. Gana e Boblique (2000) hanno dimostrato che i poliziotti con maggiore autostima riescono a mettere in atto strategie di coping più efficaci, evitando così il rischio di sviluppare burnout.

Le strategie di coping

Le strategie di coping producono effetti su diversi aspetti del benessere, della salute mentale e degli stili di vita individuali. Infatti, possono facilitare una migliore interpretazione degli eventi o, al contrario, ostacolare un assorbimento del trauma (Zani e Cicognani, 1999). Prima di procedere alla descrizione delle ricerche riguardanti l’uso di strategie di coping nel particolare campo del lavoro di Polizia, è importante evidenziare come tale letteratura non trovi una categorizzazione univoca per gli stili di coping, anche se è frequente il riconoscimento di strategie incentrate sulla risoluzione del problema (o problem solving), sulle emozioni (regolare le emozioni conseguenti a eventi o situazioni stressanti) e sulla ricerca di supporto sociale (informativo, materiale ed emotivo). Un’importante specificazione riguarda l’esistenza di strategie di coping definibili come adattive o disadattive per la persona che le utilizza. Secondo questa valutazione si definiscono come strategie adattive quelle che prevedono il fronteggiamento attivo dello stressor, la ricerca di supporto sociale emotivo o strumentale e la reinterpretazione attraverso una prospettiva maggiormente positiva della situazione; l’eccessiva manifestazione delle proprie emozioni, l’evitamento di una ricerca di soluzioni e il distacco psicologico dall’evento stressante sono invece considerate modalità di coping disadattive (Pietrantoni, 1999; Zani e Cicognani, 1999).

Le strategie di coping variano in funzione della fonte di stress: se lo stress è acuto le possibilità di reazione possono essere categorizzate in due macrocategorie, la fuga (flight) o la lotta (fight); se invece lo stress è di tipo cronico le risposte possono essere molto più eterogenee (Feldmann, 1998). Band e Manuele (1987) sostengono che i poliziotti con modalità di coping disadattive tendono a essere soggetti a depressione, a consumare alcolici e a sviluppare disturbi fisici. Alexander e Walker (1994) trovano che i poliziotti tendono a parlare con i propri colleghi sul posto di lavoro, mentre tendono a tenersi le cose per sé quando sono fuori dal lavoro. Burke (1993) rileva che coloro che parlano delle proprie problematiche ad altri riportano livelli minori di uso di alcol e reazioni allo stress. Elementi come genere sessuale, compiti lavorativi, grado gerarchico, livello di istruzione non sembrano essere associati alle strategie di coping utilizzate dal personale di Polizia (Alexander e Walker, 1994; Fain e Mc-Cormick, 1988; Kaufmann e Beehr, 1989). Tuttavia una recente ricerca (Patterson, 2000) suggerisce un’associazione fra un alto livello d’istruzione e un maggiore utilizzo di coping centrato sulle emozioni e una maggiore ricerca di supporto sociale.

Possiamo notare, però, che alcune ricerche non appoggiano l’ipotesi generale che conferisce alle capacità di coping e al supporto sociale un’influenza sul controllo dello stress lavorativo e sul benessere (Patterson, 2003; Terry et al., 1993). L’azione del supporto sociale potrebbe essere anche negativa, avere cioè un effetto contrario sullo stress lavorativo incrementando i suoi effetti negativi sul benessere della persona (il cosiddetto reverse buffering effect, ovvero l’effetto inverso di ammortizzamento). Questo effetto indesiderato è stato riscontrato da Kaufmann e Beehr (1989) in un campione di agenti di Polizia: dai risultati è emerso che gli agenti che ricercavano maggiormente supporto sociale riportavano anche alti livelli di esposizione a eventi stressanti sul lavoro e di sintomi conseguenti allo stress. Si deve poi notare che l’utilizzo di strategie di coping focalizzate sulla soluzione del problema può in molti casi essere inefficace, se si considera che il lavoro nelle forze di Polizia è caratterizzato da numerose situazioni ed eventi stressanti che non hanno una vera e propria «soluzione». Quindi, l’utilizzo del coping centrato sul problem solving non solo può risultare inefficace, ma può anche incrementare il disagio prodotto dallo stress. Questo suggerisce come conseguenza il bisogno per gli agenti di Polizia di utilizzare diversi tipi di coping per poter far fronte in modo efficace e adattivo al disagio dovuto allo stress.

Beehr et al. (1995) hanno messo a confronto gli stili di coping utilizzati da un campione di agenti di Polizia statunitensi e dalle relative mogli. Prevalentemente sia gli agenti che le loro mogli affrontano lo stress mediante strategie centrate sul problema, anche se è frequente l’uso di coping focalizzato sulle proprie emozioni e l’affidamento alla propria religiosità. Da questa ricerca emerge infine che l’utilizzo di strategie di coping disfunzionali è associato a possibili conseguenze negative quali l’abuso di alcol, il divorzio e il suicidio.

La particolarità di questo lavoro e del contesto sociolavorativo fonte di stress aumentano la rilevanza del tempo passato fuori dalla sfera lavorativa per il benessere dell’agente di Polizia. Una ricerca (Iwasaki et al., 2002) ha preso in considerazione l’influenza che la qualità del tempo libero ha sul benessere psicologico dei poliziotti: la dedizione al tempo libero ha una relazione positiva con i sintomi da stress, sia a breve che a lungo termine. Si può quindi affermare che l’uso ottimale del tempo libero (sport, amicizie, ecc.) ha la capacità di migliorare l’umore, facilitare un fronteggia mento momentaneo delle situazioni di tensione e ridurre efficacemente lo stress.

Comportamenti non salutari

Stili di vita e comportamenti non salutari aumentano la probabilità di malattie e morte. L’ambiente di lavoro da una parte può influenzare stili di vita non sani, dall’altra può essere un luogo per effettuare screening e fornire interventi soprattutto per le categorie più a rischio (Pietrantoni, 2002). Dalle ricerche internazionali sembrerebbe che gli agenti di Polizia manifestino un elevato consumo di alcol. È stato calcolato che, negli Stati Uniti, il tasso di abuso d’alcol è circa il doppio negli agenti di Polizia rispetto alla popolazione generale (Violanti e Paton, 1999). Richmond et al. (1998) hanno effettuato uno studio in Gran Bretagna in cui risulta che, fra gli agenti di Polizia, il 48% dei maschi e il 41% delle femmine usano alcol a un livello dannoso per la loro salute e alcuni fanno regolarmente uso di altre sostanze (in particolare i giovani). Altri studi, in territorio sia statunitense che australiano, citati da McNeill (1996), ci danno un quadro un po’ meno allarmista. Da essi, infatti, non emergono grandi differenze nel confronto con la media generale della popolazione.

In Italia non esistono dati confrontabili. Nell’ambiente di Polizia, il bere sembra essere radicato nella cultura e risulta essere una modalità per fare gruppo tra maschi (McNeill, 1996). Bere alla fine dei turni di servizio sarebbe una ritualità essenziale della cultura di Polizia. Secondo McNeill (1996), il bere è un’attività permessa se non incentivata proprio allo scopo di sentirsi un gruppo unito e leale e mantenere un ambiente cameratesco. Alcuni agenti del campione di ricerca parlano addirittura di pressioni a bere per fare parte del gruppo cominciate già nell’accademia di Polizia. I postumi di una sbronza, inoltre, sono ben tollerati all’interno della cultura della Polizia (da parte di ufficiali sia di basso che di alto grado), tanto che nella ricerca emerge che una parte del personale comincia il turno sotto l’effetto dei postumi. Inoltre la difficoltà degli agenti nello stringere amicizie al di fuori dell’ambiente lavorativo potrebbe essere un fattore che rinforza la cultura della Polizia e, indirettamente, incrementa la probabilità di bere. Sembrerebbe che i poliziotti abbiano credenze sugli effetti dell’alcol per lo più connotate positivamente. McNeill (1996) riporta che le aspettative più diffuse sul consumo d’alcol riguardano: una regolazione del tono d’umore, più assertività, migliori prestazioni sessuali, maggiore interazione sociale, riduzione della tensione, migliori prestazioni cognitive e motorie. In particolare secondo Richmond et al. (1998) l’abuso d’alcol sarebbe più presente negli ambienti di lavoro con una prevalente presenza maschile e una scarsa adesione all’organizzazione (limitato impegno nel lavoro, conflitti con la direzione, ecc.).

In letteratura l’abuso di alcol è stato spesso considerato una modalità di coping inadeguata per affrontare gli stressor lavorativi (McNeill, 1996). In questi casi, il gruppo può contribuire alla credenza che l’alcol possa lenire le emozioni negative e in seguito farne diventare il consumo un’usuale strategia di coping. Un esempio è dato da Sadava e Pak (1993), i quali riportano che le persone solitamente sono predisposte a bere in modo eccessivo in situazioni stressanti quando credono che questo consentirà loro di affrontare lo stress; pertanto il legame fra stressor e alcol non è diretto ma mediato dalla credenza che possa essere una valida modalità per fuggire, dimenticare o ridefinire situazioni spiacevoli.

È risaputo che l’eccessivo consumo di alcol comporta problemi a livello personale, sociale, professionale e finanziario. Nel contesto delle forze dell’ordine questo problema però comporta, oltre a conflitti di ruolo e sanzioni, anche altre gravi implicazioni nel lavoro, come lentezza nei tempi di reazione, nel pensiero e nella coordinazione, assenteismo, rischi di ferimento sul servizio. A livello organizzativo ciò implica maggiori costi finanziari e di risorse connessi alla richiesta di permessi per malattia e dimissioni.

Fra i danni alla salute personale possiamo citare una ricerca statistica effettuata in Australia nella quale risulta che le morti per malattie al fegato dovute all’alcol sono dell’1,2% all’interno delle forze dell’ordine, mentre nella popolazione generale il tasso è dello 0,6% (Richmond et al., 1998).

La prevalenza di fumatori all’interno della Polizia risulta essere, secondo uno studio condotto negli Stati Uniti da Richmond et al. (1998), del 27% fra gli uomini e del 32% fra le donne e la percentuale della popolazione generale è al di sotto di queste percentuali. Queste percentuali raggiungono alti livelli fra le persone più anziane. A questo proposito si cita una ricerca statistica effettuata in Australia nella quale risulta che le morti per tumore al polmone sono più diffuse fra gli agenti di Polizia (7%) rispetto alla popolazione generale (5,4%).

Conflitti lavoro-famiglia

Il conflitto lavoro-famiglia è un’altra dimensione che si intreccia con lo stress lavorativo e avviene nel momento in cui le richieste necessarie per adempiere alla mansione lavorativa interferiscono con le esigenze della vita familiare e viceversa. McNeill (1996) riporta studi che dimostrano come il conflitto lavoro-famiglia abbia un impatto negativo sia sulla vita familiare che sul lavoro. Una normale vita familiare e sociale viene compromessa da un lavoro a turni irregolari, da un’eccessiva rigidità dell’orario lavorativo, dallo svolgimento di lavoro straordinario. Il conflitto di ruolo (incapacità, inadeguatezza, impossibilità di svolgere il proprio ruolo) e l’ambiguità di ruolo (non chiarezza sulle aspettative, sui compiti e sui privilegi) sono collegati al conflitto lavoro-famiglia. Alcune ricerche riportano che gli stati emotivi possono essere «trasferiti» da un contesto (lavorativo o familiare) all’altro e trasmessi da un membro familiare all’altro. Sugimoto e Oltjenenbruns (2001), in particolare, riportano come un senso di vulnerabilità ad attacchi, provato sia in servizio che fuori servizio, si possa estendere alla famiglia. Roberts e Levenson (2001) sottolineano come lo stress lavorativo abbia conseguenze potenzialmente negative per il matrimonio in quanto esso viene «portato a casa». In particolare lo stress del lavoro di Polizia comporta un maggiore livello di arousal fisiologico prima e dopo l’interazione coniugale che fa sì che sia più difficile ragionare e risolvere problemi. A volte, l’intenso stato di arousal si accompagna a uno stato di blocco nel movimento fisico, di paura e di difesa e vigilanza; questo stato esperito dal poliziotto mentre compie mansioni operative è mantenuto anche a casa ed è trasmesso anche al partner, il quale teme una difficile interazione coniugale e tenta di evitare un inasprimento dello stress del partner. La letteratura in merito conferma il fatto che alti livelli di arousal, esperire poche emozioni positive e molte negative siano segnali di distress coniugale e quindi di alto rischio di separazione.

Nella realtà italiana, in cui le forze di Polizia sono a competenza nazionale, è di particolare rilievo la complessa problematica della sede lavorativa che può essere molto lontana da quella degli interessi affettivi, e del fenomeno del pendolarismo. Questi fattori possono influenzare la qualità della vita di coppia. Infine alcuni dati aneddotici riporterebbero una discreta frequenza di matrimoni fra operatori della Polizia di Stato e fra operatori di diverse forze di Polizia le cui ipotesi esplicative attengono certamente all’effetto della prossimità ma anche probabilmente alla percezione che, svolgendo una professione come quella del poliziotto, si possa essere compresi meglio da un partner che sia operatore di Polizia.


 

POSSIBILI INTERVENTI PER DIMINUIRE IL DISAGIO

Quali interventi sono possibili con l’obiettivo di minimizzare le possibilità di disturbi psicologici dovuti all’esposizione a situazioni o eventi stresso geni sul lavoro e promuovere competenza e benessere tra le forze di Polizia?

Procedure adeguate in corso di selezione e addestramento possono essere efficaci nel prevenire lo sviluppo di disturbi connessi allo stress lavorativo. In generale, l’esperienza dell’addestramento permette ai poliziotti una maggior efficacia nell’affrontare situazioni problematiche attraverso l’uso di modalità di fronteggiamento come rimanere mentalmente distaccati, controllare le risposte emotive, accettare le proprie responsabilità ed effettuare una rivalutazione positiva della situazione (Violanti, 1993).

Anche il monitoraggio dello stato psicologico degli agenti di Polizia è fondamentale. In Italia, la Direzione centrale di Sanità della Polizia di Stato, attraverso il proprio Centro di neurologia e psicologia medica, ha tra i propri obiettivi primari la tutela della salute mentale del personale di Polizia. Dopo l’iniziale valutazione psicodiagnostica che viene effettuata all’atto delle prove concorsuali, si svolgono controlli clinici periodici nei confronti degli operatori di Polizia che, nel corso del loro servizio, abbiano sofferto di patologie psichiatriche o che comunque abbiano manifestato chiari segni di stress, ad esempio malesseri generalizzati ricorrenti, insonnia, assenteismo, disinteresse verso il lavoro, perdita di sentimenti positivi verso i colleghi, cinismo, rigidità di pensiero e di comportamento o, addirittura, tendenza all’irritabilità e all’aggressività (Cuomo e Mantineo, 2001).

Un’altra tipologia di interventi è orientata a gestire meglio lo stress e nel contempo a migliorare la prestazione. All’inizio degli anni Settanta Suinn (1972) sviluppò la tecnica denominata VMBR (Visuo-Motor Behavior Rehearsal), studiata per applicazioni in ambiti sportivi, poi trasferita nella formazione ai corpi di Polizia con l’obiettivo di migliorare le prestazioni nelle situazioni critiche. La tecnica combina un rilassamento progressivo, esercizio mentale e raffigurazione mentale delle proprie prestazioni, al fine di controllare il carico emotivo e di migliorare le performance. Shipley e Baranski (2002) nel loro studio hanno sottoposto al VMBR un campione di reclute della Polizia dell’Ontario, prima della simulazione di un possibile scenario di un agente di Polizia in servizio. Il particolare potenzialmente stressante della simulazione consisteva nel passaggio repentino da una situazione di routine (ad esempio fermare un veicolo per eccesso di velocità) a una in cui viene minacciata l’incolumità dell’agente (ad esempio i personaggi del veicolo iniziano a sparare in direzione dei poliziotti). I risultati di questa ricerca dimostrano come il training con VMBR possa ridurre lo stato d’ansia e migliorare le prestazioni in situazioni di stress provocato da contesti potenzialmente mortali. Il training quindi avrebbe la capacità di migliorare la valutazione dello stimolo ambientale e le aspettative sulle proprie prestazioni (Salas et al., 1996).

Fra gli interventi che invece si occupano di minimizzare i rischi successivi a traumi, la strategia più popolare è il debriefing. I risultati delle ricerche non sono univoci: non sempre si osservano miglioramenti dovuti all’intervento nei sintomi correlati allo stress tra il gruppo che ha preso parte al debriefing e quello di controllo (Matthews, 1997; Carlier, Voermar e Gersons, 2000). Tuttavia, l’effetto di questi interventi non è tanto da osservare in un miglioramento dei sintomi conseguenti allo stress, ma in una maggiore consapevolezza delle reazioni agli eventi, emozioni e sintomi percepiti dai soggetti stessi: ovvero, il coinvolgimento nel debriefing può intensificare il livello di stress riportato e percepito dai soggetti. Ciò deriva dalla componente psicoeducativa di questo tipo d’intervento, che tende ad accrescere nei partecipanti la consapevolezza delle proprie reazioni allo stress (Matthews, 1997).

Il debriefing dopo un incidente (Critical Incident Stress Debriefing/CISD) consiste nel fornire aiuto e assistenza subito dopo la crisi in modo da poter prevenire la comparsa o il mantenimento di problemi più seri. Una ricerca ha verificato in che modo il debriefing possa essere un valido intervento nelle esperienze stressanti acute, come quelle che si verificano quando si è colpiti da un’arma da fuoco. Leonard e Alison (1999), confrontando due gruppi di poliziotti coinvolti in sparatorie, il primo sottoposto a CISD e il secondo di controllo, hanno notato una riduzione nei livelli di rabbia e un maggiore uso di strategie di coping adattive.

Nell’affrontare gli Incidenti Critici Professionali, la prassi ha fino a oggi dato assoluta prevalenza all’aspetto disciplinare più che a quello dell’intervento psicologico. Un programma specifico in Italia è rivolto ad aiutare i poliziotti dopo gli incidenti critici professionali, quali conflitti a fuoco che provocano la morte di colleghi o di terze persone, le attività di soccorso relative a disastri di grande portata, il suicidio di un collega, lo svolgimento di alcuni tipi di attività investigative come, ad esempio, quelle relative a reati contro i bambini, il ricevere minacce o attentati indirizzati alla propria persona o a familiari a causa dell’attività istituzionale svolta. Lucchetti (2003) fa notare come i programmi di sostegno psicologico al personale di Polizia debbano essere di tipo cognitivo-comportamentale proprio perché si riferiscono a processi più immediatamente percepibili e interpretabili e come debbano essere opportunamente proposti dato che negli ambienti di Polizia l’acronimo P.S.I. (che sta per Psicologia, psichiatria, ecc.) viene interpretato come sinonimo di S.P.Y. (spia) per indicare la sensazione di essere indagati che hanno gli operatori quando vengono a contatto con gli esperti di salute mentale.  Secondo Lucchetti (2003), la comunicazione fra pari e con i «supervisori» rappresenta un fattore di protezione nei confronti dello stress, in particolare per quanto attiene allo stress acuto da eventi critici in cui il supporto di «pari» adeguatamente formati all’interno di un programma di gestione di tali eventi risulta valutato positivamente dai poliziotti. In tali contesti di criticità si è rivelato altrettanto importante il ruolo giocato dai «capi», in quanto si è visto che una loro attenta gestione delle sequele dell’incidente produce una significativa diminuzione delle problematiche psicologiche fra i loro dipendenti traumatizzati.

Tuttavia, anche percorsi formativi e seminari interattivi con psicologi di Polizia sulla gestione dello stress in situazioni critiche e sulle abilità di team building possono essere tutte utili attività di prevenzione e sostegno per rendere gli agenti maggiormente competenti ed efficienti nel loro lavoro (Amaranto et al., 2003). Per quanto riguarda i comportamenti a rischio di salute (ad esempio abuso di alcol, ecc.), è auspicabile la collaborazione fra la professionalità sanitaria storicamente presente nella realtà delle Istituzioni a cui fanno capo le forze di Polizia con quella degli psicologi. Inoltre, lo sforzo per modificare stili di vita non salutari, o rinforzare i comportamenti igienicamente corretti, può al momento essere concentrato durante i corsi di formazione di base e quelli di specializzazione e aggiornamento a cui periodicamente partecipa il personale delle forze di Polizia.