Stress lavoro correlato

Stress lavoro correlato e benessere organizzativo

 

LA COMPLESSITÀ DELLA RELAZIONE STRESSOR-DISTRESS

Per quanto detto finora possiamo affermare con certezza che il lavoro in Polizia, come parte del ruolo professionale, espone l’agente a situazioni ed eventi stressanti, che possono riflettersi in modo negativo sulla vita stessa dei poliziotti, influenzando il loro stile di vita fino a provocare veri e propri disturbi psicologici. Il legame fra stressor e distress non è naturalmente meccanico: nonostante i sintomi del DSPT fra gli agenti di Polizia siano fortemente correlati all’esposizione a eventi altamente stressanti, ci sono studi che non trovano conseguenze di tipo psicologico in persone che hanno fornito soccorso in seguito a disastri (Brown et al., 1999). A questo proposito possiamo accennare ad Alexander et al. (1993), i quali riportano che, nel disastro dell’impianto di trivellazione Piper Alpha del 1988 nel Mare del Nord nel quale morirono 167 uomini, i poliziotti scozzesi coinvolti nella raccolta dei corpi non hanno riportato — sorprendentemente — conseguenze psicologiche gravi. Carlier, Lamberts e Gersons (2000) menzionano un altro esempio: comunemente in Polizia due agenti sono esposti allo stesso evento e uno solo sviluppa i sintomi del DSPT. Ciò significa che la reazione traumatica è determinata sia da fattori oggettivi, come la severità dell’evento, sia da fattori soggettivi, come le differenze individuali, il significato attribuito all’evento e le strategie di coping. È di centrale importanza la percezione dello stressor e il significato che viene ad assumere. In questo modo, una stessa richiesta nel lavoro assume significati differenti per persone diverse e la presenza di uno stressor lavorativo non ha lo stesso effetto su più persone. Altrettanto importanti sono le capacità individuali di coping, risorse individuali utilizzate per affrontare eventi e situazioni che mettono alla prova il proprio benessere psicosociale. Le modalità per affrontare un evento stressante possono portare l’individuo da una risposta negativa a una fonte di crescita e di sviluppo personale.

Violanti e Paton (1999) sostengono infatti che lo stress legato al trauma è un complesso prodotto dell’interazione di ambiente, situazione, persona, meccanismi di supporto e interventi. In base a questo modello biopsico-sociale, agendo sui fattori intervenienti, si può arrivare anche a una buona elaborazione dell’evento stressante, in modo che non produca effetti negativi ma diventi, al contrario, un’occasione di crescita per l’individuo.

Fattori individuali

I fattori individuali sono di grande importanza nell’interazione con gli stressor, come già affermato precedentemente. In generale all’interno delle forze dell’ordine i rischi connessi al lavoro e il livello di stress decrescono con il progredire dell’età e dell’anzianità di servizio (Mayhew, 2001; Storch e Panzanella, 1996). Questo risultato è dovuto sia a una maggiore esperienza e abilità nel lavoro sia al raggiungimento di migliori posizioni lavorative. Violanti (2001) sottolinea il fatto che fattori individuali come l’hardiness, definito come l’abilità di affrontare con coraggio condizioni difficili, la vulnerabilità, definita come la forza che comprime lo stressor sull’individuo, la resilienza, definita come la capacità di recuperare dopo un evento negativo e di ritrovare un veloce equilibrio attraverso il coping, possano influenzare il modo in cui vengono vissuti e interpretati gli stressor. Se gli stressor vengono adeguatamente affrontati possono costituire esperienze di crescita e sviluppo personale.

Le strutture cognitive personali assumono un’importanza fondamentale nell’elaborazione del trauma. Carlier, Lamberts e Gersons (2000) riportano in uno studio che ciò che differenzia un gruppo di agenti di Polizia con DSPT rispetto a uno non-DSPT è lo schema di sé, in particolare l’illusione di invulnerabilità e la sicurezza del potersi difendersi da un pericolo e da una minaccia fisica percepita. Gli schemi cognitivi posseduti possono essere violati dall’esperienza del trauma e questa violazione può causare molte difficoltà psicologiche che interferiscono con il processo di coping. Pertanto i poliziotti con schemi di sé che idealizzano l’invulnerabilità e l’integrità personale una volta esposti al trauma che distrugge questa illusione sono più propensi a sviluppare disturbi psicologici. Mearns e Mauch (1998) dimostrano che un fattore di protezione di grande importanza nello stress lavorativo in Polizia è l’aspettativa sulla regolazione dell’umore negativo. In altre parole, ci sono poliziotti che sono più convinti della loro capacità di lenire i propri stati d’animo negativi e altri, invece, che non sono convinti di ciò. L’aspettativa sulla regolazione dell’umore predice l’utilizzo di strategie di coping adattive e comporta una più bassa incidenza di conseguenze dello stress lavorativo come l’ansia, la depressione, i problemi fisici e l’abuso di alcol. Infine, anche l’autostima risulta essere un fattore di protezione nei confronti degli stressor lavorativi. Gana e Boblique (2000) hanno dimostrato che i poliziotti con maggiore autostima riescono a mettere in atto strategie di coping più efficaci, evitando così il rischio di sviluppare burnout.

Le strategie di coping

Le strategie di coping producono effetti su diversi aspetti del benessere, della salute mentale e degli stili di vita individuali. Infatti, possono facilitare una migliore interpretazione degli eventi o, al contrario, ostacolare un assorbimento del trauma (Zani e Cicognani, 1999). Prima di procedere alla descrizione delle ricerche riguardanti l’uso di strategie di coping nel particolare campo del lavoro di Polizia, è importante evidenziare come tale letteratura non trovi una categorizzazione univoca per gli stili di coping, anche se è frequente il riconoscimento di strategie incentrate sulla risoluzione del problema (o problem solving), sulle emozioni (regolare le emozioni conseguenti a eventi o situazioni stressanti) e sulla ricerca di supporto sociale (informativo, materiale ed emotivo). Un’importante specificazione riguarda l’esistenza di strategie di coping definibili come adattive o disadattive per la persona che le utilizza. Secondo questa valutazione si definiscono come strategie adattive quelle che prevedono il fronteggiamento attivo dello stressor, la ricerca di supporto sociale emotivo o strumentale e la reinterpretazione attraverso una prospettiva maggiormente positiva della situazione; l’eccessiva manifestazione delle proprie emozioni, l’evitamento di una ricerca di soluzioni e il distacco psicologico dall’evento stressante sono invece considerate modalità di coping disadattive (Pietrantoni, 1999; Zani e Cicognani, 1999).

Le strategie di coping variano in funzione della fonte di stress: se lo stress è acuto le possibilità di reazione possono essere categorizzate in due macrocategorie, la fuga (flight) o la lotta (fight); se invece lo stress è di tipo cronico le risposte possono essere molto più eterogenee (Feldmann, 1998). Band e Manuele (1987) sostengono che i poliziotti con modalità di coping disadattive tendono a essere soggetti a depressione, a consumare alcolici e a sviluppare disturbi fisici. Alexander e Walker (1994) trovano che i poliziotti tendono a parlare con i propri colleghi sul posto di lavoro, mentre tendono a tenersi le cose per sé quando sono fuori dal lavoro. Burke (1993) rileva che coloro che parlano delle proprie problematiche ad altri riportano livelli minori di uso di alcol e reazioni allo stress. Elementi come genere sessuale, compiti lavorativi, grado gerarchico, livello di istruzione non sembrano essere associati alle strategie di coping utilizzate dal personale di Polizia (Alexander e Walker, 1994; Fain e Mc-Cormick, 1988; Kaufmann e Beehr, 1989). Tuttavia una recente ricerca (Patterson, 2000) suggerisce un’associazione fra un alto livello d’istruzione e un maggiore utilizzo di coping centrato sulle emozioni e una maggiore ricerca di supporto sociale.

Possiamo notare, però, che alcune ricerche non appoggiano l’ipotesi generale che conferisce alle capacità di coping e al supporto sociale un’influenza sul controllo dello stress lavorativo e sul benessere (Patterson, 2003; Terry et al., 1993). L’azione del supporto sociale potrebbe essere anche negativa, avere cioè un effetto contrario sullo stress lavorativo incrementando i suoi effetti negativi sul benessere della persona (il cosiddetto reverse buffering effect, ovvero l’effetto inverso di ammortizzamento). Questo effetto indesiderato è stato riscontrato da Kaufmann e Beehr (1989) in un campione di agenti di Polizia: dai risultati è emerso che gli agenti che ricercavano maggiormente supporto sociale riportavano anche alti livelli di esposizione a eventi stressanti sul lavoro e di sintomi conseguenti allo stress. Si deve poi notare che l’utilizzo di strategie di coping focalizzate sulla soluzione del problema può in molti casi essere inefficace, se si considera che il lavoro nelle forze di Polizia è caratterizzato da numerose situazioni ed eventi stressanti che non hanno una vera e propria «soluzione». Quindi, l’utilizzo del coping centrato sul problem solving non solo può risultare inefficace, ma può anche incrementare il disagio prodotto dallo stress. Questo suggerisce come conseguenza il bisogno per gli agenti di Polizia di utilizzare diversi tipi di coping per poter far fronte in modo efficace e adattivo al disagio dovuto allo stress.

Beehr et al. (1995) hanno messo a confronto gli stili di coping utilizzati da un campione di agenti di Polizia statunitensi e dalle relative mogli. Prevalentemente sia gli agenti che le loro mogli affrontano lo stress mediante strategie centrate sul problema, anche se è frequente l’uso di coping focalizzato sulle proprie emozioni e l’affidamento alla propria religiosità. Da questa ricerca emerge infine che l’utilizzo di strategie di coping disfunzionali è associato a possibili conseguenze negative quali l’abuso di alcol, il divorzio e il suicidio.

La particolarità di questo lavoro e del contesto sociolavorativo fonte di stress aumentano la rilevanza del tempo passato fuori dalla sfera lavorativa per il benessere dell’agente di Polizia. Una ricerca (Iwasaki et al., 2002) ha preso in considerazione l’influenza che la qualità del tempo libero ha sul benessere psicologico dei poliziotti: la dedizione al tempo libero ha una relazione positiva con i sintomi da stress, sia a breve che a lungo termine. Si può quindi affermare che l’uso ottimale del tempo libero (sport, amicizie, ecc.) ha la capacità di migliorare l’umore, facilitare un fronteggia mento momentaneo delle situazioni di tensione e ridurre efficacemente lo stress.

Comportamenti non salutari

Stili di vita e comportamenti non salutari aumentano la probabilità di malattie e morte. L’ambiente di lavoro da una parte può influenzare stili di vita non sani, dall’altra può essere un luogo per effettuare screening e fornire interventi soprattutto per le categorie più a rischio (Pietrantoni, 2002). Dalle ricerche internazionali sembrerebbe che gli agenti di Polizia manifestino un elevato consumo di alcol. È stato calcolato che, negli Stati Uniti, il tasso di abuso d’alcol è circa il doppio negli agenti di Polizia rispetto alla popolazione generale (Violanti e Paton, 1999). Richmond et al. (1998) hanno effettuato uno studio in Gran Bretagna in cui risulta che, fra gli agenti di Polizia, il 48% dei maschi e il 41% delle femmine usano alcol a un livello dannoso per la loro salute e alcuni fanno regolarmente uso di altre sostanze (in particolare i giovani). Altri studi, in territorio sia statunitense che australiano, citati da McNeill (1996), ci danno un quadro un po’ meno allarmista. Da essi, infatti, non emergono grandi differenze nel confronto con la media generale della popolazione.

In Italia non esistono dati confrontabili. Nell’ambiente di Polizia, il bere sembra essere radicato nella cultura e risulta essere una modalità per fare gruppo tra maschi (McNeill, 1996). Bere alla fine dei turni di servizio sarebbe una ritualità essenziale della cultura di Polizia. Secondo McNeill (1996), il bere è un’attività permessa se non incentivata proprio allo scopo di sentirsi un gruppo unito e leale e mantenere un ambiente cameratesco. Alcuni agenti del campione di ricerca parlano addirittura di pressioni a bere per fare parte del gruppo cominciate già nell’accademia di Polizia. I postumi di una sbronza, inoltre, sono ben tollerati all’interno della cultura della Polizia (da parte di ufficiali sia di basso che di alto grado), tanto che nella ricerca emerge che una parte del personale comincia il turno sotto l’effetto dei postumi. Inoltre la difficoltà degli agenti nello stringere amicizie al di fuori dell’ambiente lavorativo potrebbe essere un fattore che rinforza la cultura della Polizia e, indirettamente, incrementa la probabilità di bere. Sembrerebbe che i poliziotti abbiano credenze sugli effetti dell’alcol per lo più connotate positivamente. McNeill (1996) riporta che le aspettative più diffuse sul consumo d’alcol riguardano: una regolazione del tono d’umore, più assertività, migliori prestazioni sessuali, maggiore interazione sociale, riduzione della tensione, migliori prestazioni cognitive e motorie. In particolare secondo Richmond et al. (1998) l’abuso d’alcol sarebbe più presente negli ambienti di lavoro con una prevalente presenza maschile e una scarsa adesione all’organizzazione (limitato impegno nel lavoro, conflitti con la direzione, ecc.).

In letteratura l’abuso di alcol è stato spesso considerato una modalità di coping inadeguata per affrontare gli stressor lavorativi (McNeill, 1996). In questi casi, il gruppo può contribuire alla credenza che l’alcol possa lenire le emozioni negative e in seguito farne diventare il consumo un’usuale strategia di coping. Un esempio è dato da Sadava e Pak (1993), i quali riportano che le persone solitamente sono predisposte a bere in modo eccessivo in situazioni stressanti quando credono che questo consentirà loro di affrontare lo stress; pertanto il legame fra stressor e alcol non è diretto ma mediato dalla credenza che possa essere una valida modalità per fuggire, dimenticare o ridefinire situazioni spiacevoli.

È risaputo che l’eccessivo consumo di alcol comporta problemi a livello personale, sociale, professionale e finanziario. Nel contesto delle forze dell’ordine questo problema però comporta, oltre a conflitti di ruolo e sanzioni, anche altre gravi implicazioni nel lavoro, come lentezza nei tempi di reazione, nel pensiero e nella coordinazione, assenteismo, rischi di ferimento sul servizio. A livello organizzativo ciò implica maggiori costi finanziari e di risorse connessi alla richiesta di permessi per malattia e dimissioni.

Fra i danni alla salute personale possiamo citare una ricerca statistica effettuata in Australia nella quale risulta che le morti per malattie al fegato dovute all’alcol sono dell’1,2% all’interno delle forze dell’ordine, mentre nella popolazione generale il tasso è dello 0,6% (Richmond et al., 1998).

La prevalenza di fumatori all’interno della Polizia risulta essere, secondo uno studio condotto negli Stati Uniti da Richmond et al. (1998), del 27% fra gli uomini e del 32% fra le donne e la percentuale della popolazione generale è al di sotto di queste percentuali. Queste percentuali raggiungono alti livelli fra le persone più anziane. A questo proposito si cita una ricerca statistica effettuata in Australia nella quale risulta che le morti per tumore al polmone sono più diffuse fra gli agenti di Polizia (7%) rispetto alla popolazione generale (5,4%).

Conflitti lavoro-famiglia

Il conflitto lavoro-famiglia è un’altra dimensione che si intreccia con lo stress lavorativo e avviene nel momento in cui le richieste necessarie per adempiere alla mansione lavorativa interferiscono con le esigenze della vita familiare e viceversa. McNeill (1996) riporta studi che dimostrano come il conflitto lavoro-famiglia abbia un impatto negativo sia sulla vita familiare che sul lavoro. Una normale vita familiare e sociale viene compromessa da un lavoro a turni irregolari, da un’eccessiva rigidità dell’orario lavorativo, dallo svolgimento di lavoro straordinario. Il conflitto di ruolo (incapacità, inadeguatezza, impossibilità di svolgere il proprio ruolo) e l’ambiguità di ruolo (non chiarezza sulle aspettative, sui compiti e sui privilegi) sono collegati al conflitto lavoro-famiglia. Alcune ricerche riportano che gli stati emotivi possono essere «trasferiti» da un contesto (lavorativo o familiare) all’altro e trasmessi da un membro familiare all’altro. Sugimoto e Oltjenenbruns (2001), in particolare, riportano come un senso di vulnerabilità ad attacchi, provato sia in servizio che fuori servizio, si possa estendere alla famiglia. Roberts e Levenson (2001) sottolineano come lo stress lavorativo abbia conseguenze potenzialmente negative per il matrimonio in quanto esso viene «portato a casa». In particolare lo stress del lavoro di Polizia comporta un maggiore livello di arousal fisiologico prima e dopo l’interazione coniugale che fa sì che sia più difficile ragionare e risolvere problemi. A volte, l’intenso stato di arousal si accompagna a uno stato di blocco nel movimento fisico, di paura e di difesa e vigilanza; questo stato esperito dal poliziotto mentre compie mansioni operative è mantenuto anche a casa ed è trasmesso anche al partner, il quale teme una difficile interazione coniugale e tenta di evitare un inasprimento dello stress del partner. La letteratura in merito conferma il fatto che alti livelli di arousal, esperire poche emozioni positive e molte negative siano segnali di distress coniugale e quindi di alto rischio di separazione.

Nella realtà italiana, in cui le forze di Polizia sono a competenza nazionale, è di particolare rilievo la complessa problematica della sede lavorativa che può essere molto lontana da quella degli interessi affettivi, e del fenomeno del pendolarismo. Questi fattori possono influenzare la qualità della vita di coppia. Infine alcuni dati aneddotici riporterebbero una discreta frequenza di matrimoni fra operatori della Polizia di Stato e fra operatori di diverse forze di Polizia le cui ipotesi esplicative attengono certamente all’effetto della prossimità ma anche probabilmente alla percezione che, svolgendo una professione come quella del poliziotto, si possa essere compresi meglio da un partner che sia operatore di Polizia.