Stress lavoro correlato

Stress lavoro correlato e benessere organizzativo

 

STRESSOR LEGATI AL CONTESTO DEL LAVORO

Una parte della letteratura sostiene la tesi secondo la quale gli effetti degli stressor legati all’aspetto organizzativo e amministrativo del lavoro sono maggiori rispetto a quelli degli stressor legati alle mansioni lavorative. Storch e Panzarella (1996) riportano che l’assunzione comune che i poliziotti soffrano di stress a causa delle difficoltà incontrate sul lavoro (violenze, sparatorie, ecc.) sia una credenza non corrispondente alla realtà poiché le ricerche empiriche dimostrano il contrario. I ricercatori spiegano che, nonostante i questionari citino fattori lavorativi come affrontare il pericolo, la violenza o la miseria umana, gli agenti di Polizia raramente menzionano questi come cause di stress. I fattori riportati come più stressanti, invece, risultano essere variabili organizzative come le condizioni di lavoro, i rapporti con i superiori e le relazioni con l’ambiente esterno alla Polizia (cittadini, sistema legale). Alexander et al. (1993), allo stesso modo, riportano che i più alti livelli di stress sono raggiunti a causa di fattori organizzativi: carenza di personale, risorse inadeguate, pressioni di tempo o mancanza di tempo per elaborare un evento traumatico, sovraccarico di lavoro, mancanza di comunicazione. Di seguito si analizzano alcune di queste condizioni stressanti legate al contesto lavorativo.

  • I TURNI. Gli agenti di Polizia prestano un servizio che copre l’intero arco della giornata. Il lavoro a turni risulta in letteratura uno stressor notevole in quanto disturba il normale ritmo circadiano e la qualità/quantità di sonno (McNeill, 1996). Va segnalato comunque che in letteratura emerge il fatto che il lavoro a turni può portare a disturbi gastrointestinali, psicosomatici, aumento di peso, senso cronico di fatica e altri gravi disturbi a lungo termine come quelli coronarici (Patterson, 1997; Violanti e Paton, 1999). Il lavoro notturno, inoltre, provoca disturbi del ritmo circadiano e ciò si manifesta in una minore abilità nel momento più basso dal punto di vista biologico: tra le 2:00 e le 4:00 di notte (Patterson, 1997). Abbiamo deciso di relegare il fattore «lavoro a turni» nel job context anziché nel job content, proprio perché ciò che si rivela stressante sembra essere il modo in cui vengono gestiti i turni piuttosto che i turni in se stessi. McNeill (1996) riporta che il campione di agenti di Polizia coinvolti nella ricerca non ritiene che il lavorare a turni sia problematico se i turni sono organizzati in modo da poter praticare attività sportive e avere una vita sociale soddisfacente. Allo stesso modo Storch e Panzarella (1996) riportano che le maggiori lamentele sui turni di lavoro riguardano la loro gestione monopolizzata dai colleghi più anziani; il turno notturno è il più ambito in quanto ci sono minori richieste di intervento e una minore presenza della direzione.
  • SOSTEGNO SOCIALE INADEGUATO. In letteratura viene indicato come uno degli stressor più presenti a livello organizzativo la mancanza di supporto da parte dei superiori (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999; Mayew 2001; Patterson, 2001). Brown et al. (1999) rilevano che il supporto sociale nelle forze di Polizia ha un ruolo di mediazione nel diminuire la probabilità di sviluppare malessere, anche se il peso è limitato. Stephens e Long (2000) trovano che il tipo di comunicazione fra i pari e con i supervisori può essere un fattore di protezione nei confronti dello stress, e un buon predittore della salute fisica e mentale. Inoltre Stephens et al. (1997) riportano che la presenza di sintomi del DSPT è negativamente correlata al supporto sociale. Il supporto dei pari (che include la possibilità di parlare dei traumi esperiti), in particolare, mostra il più forte impatto sui sintomi del DSPT; la forza dell’impatto risulta più forte di quella del trauma stesso. La comunicazione e l’interazione sociale d’altronde non si collocano nel continuum del supporto ma, se sono negative, diventano a loro volta stressor che amplificano i sintomi del DSPT.
  • NORME SULL’ESPRESSIONE EMOTIVA. La cultura informale nella Polizia scoraggia la libera espressione dei sentimenti. Mostrare distacco e controllo nei confronti delle proprie emozioni è una componente importante dell’identità del poliziotto e costituisce anche un’aspettativa sociale molto diffusa nei loro confronti; inoltre si riporta come l’autorità esercitata dal poliziotto dipenda dal suo controllo sulle emozioni (Dick, 2000). Harvey Lintz e Tidwell (1997) asseriscono che i cittadini si aspettano che gli agenti di Polizia si comportino in modo stereotipato, mostrandosi forti nei confronti di situazioni difficili, non manifestando i propri sentimenti. Sembrerebbe tuttavia che, tra i poliziotti, la tendenza a inibire le emozioni non sia associata di per sé alla probabilità di soffrire maggiore distress, nonostante la letteratura sembri dimostrare il contrario. A questo proposito, è utile considerare che le emozioni non sono solamente dei fenomeni intrapsichici ma sono costruzioni sociali in quanto sono situate nel mondo sociale, il quale permette ciò che è definibile ed esprimibile attraverso le risorse culturali e linguistiche. Howard et al. (2000) hanno effettuato una ricerca sull’espressione delle emozioni all’interno del personale delle forze di Polizia: da una parte gli agenti di Polizia riconoscono che le emozioni richiedono di essere espresse per poter essere vissute in modo salutare, dall’altra rilevano che l’espressione delle emozioni può compromettere la performance lavorativa e la fermezza necessaria per esercitare le mansioni operative. Quindi le emozioni vengono accettate e nello stesso tempo vengono evitate e negate in quanto pericolose per il lavoro. Gli autori suggeriscono che entrambe le costruzioni sono impiegate funzionalmente dagli agenti per mantenere una competenza sia professionale che culturale. L’utilizzo dell’una o dell’altra prospettiva viene effettuato dai poliziotti in base alle aspettative sociali contingenti. Sugimoto e Oltjenenbruns (2001) parlano, inoltre, di tendenza alla chiusura nei confronti di professionisti della salute mentale e di paura ad ammettere problematiche psicologiche fra gli agenti di Polizia. Alcuni rifiutano il debriefing in seguito a interventi critici, per paura di essere considerati negativamente dai colleghi.
  • CLIMA «DI GENERE». La cultura informale delle forze dell’ordine è stata descritta come connotata da un «bias mascolino», nel quale sono valorizzati competenza, competizione, autoritarismo e abilità direttive. Il poliziotto è descritto come duro, distaccato, difensore della logica della giustizia, autonomo, oggettivo e la professione del poliziotto è considerata un lavoro che può essere svolto solo da un «uomo armato che combatte il crimine e i criminali». Alcune ricerche hanno indagato il processo di adattamento delle agenti di sesso femminile a una professione a maggioranza maschile. Secondo McNeill (1996), le agenti di Polizia si mostrerebbero più atipiche rispetto al ruolo tipicamente femminile, accettando una sorta di pseudo mascolinità nel tentativo di guadagnare accettazione e stima. Brown et al. (1999) citano ricerche in cui risulta che gli operatori della Polizia di sesso femminile soffrono di un numero di sintomi di DSPT maggiore rispetto ai colleghi di sesso maschile. D’altra parte, però, nella loro ricerca trovano che alle agenti di sesso femminile viene chiesto con più frequenza di occuparsi di stressor vicari (violenze e abusi sessuali), incrementando in questo modo la probabilità di soffrire di disturbi psicologici. Questo fattore è a sua volta spiegato tenendo presente che nelle donne vi è una maggiore sensibilità per questo tipo di crimini e che esse riescono a instaurare un rapporto maggiormente empatico con le vittime. Nella distribuzione dei compiti, alle donne agenti sono più spesso affidate questioni concernenti abusi, violenze, prostituzione, fughe o ritrovamenti di bambini. Infine, alcuni hanno sottolineato come l’ambiente di lavoro possa essere molto stressante per agenti omosessuali a causa dell’omofobia di colleghi o superiori (Burkhe, 1996).